Antonietta De Pace nel bicentenario della nascita

di Augusto Benemeglio

“Antonietta De Pace, rivoluzionaria gallipolina”, è un mio un recital (di cui feci anche una pubblicazione) che risale a circa vent’anni fa, e che ho rappresentato in diverse località del Salento, con un piccolo gruppo di giovani (e meno giovani) attori dilettanti, una sorta di “Barraca” di memoria  lorchiana (si partiva con due, o tre macchine, con le attrezzature e i costumi e via… alla ventura, direi allo sbaraglio, e spesso si recitava su un palco improvvisato con il pubblico che si portava la sedia da casa). Il tutto per far conoscere un grande  personaggio sconosciuto in patria, iniziando proprio da Gallipoli, dove l’eroina mazziniana nacque il 12 febbraio 1818, duecento anni fa. E poi a Lecce (dove c’è una scuola che porta il suo nome), Galatina, Maglie e un’infinità di altri piccoli centri (mi ricordo Martignano, Castrì, Calimera, Martano, Sannicola, Tuglie, Castromediano, etc.), con il buon Maurizio Nocera che ci seguiva dovunque, unico spettatore sicuro, certo, fedele, inamovibile, incrollabile. Capitava che si recitasse con sette spettatori, o, anche peggio, con gente che era quasi esclusivamente occupata da questioni culinarie (mi ricordo il grido di disperazione della giovanissima attrice che faceva Antonietta, che li apostrofò: “Ehi, gente, noi stiamo recitando, per voi, qualora non ve ne foste accorti”), ma tranne pochissime eccezioni, il recital è stato sempre accolto con grande entusiasmo e viva partecipazione.  Prima di questo mio “folle  tour teatrale chisciottesco”  probabilmente il  nome di Antonietta De  Pace era  associato dai più ad una via a lei intestata, che si trova nel centro storico di Gallipoli, sullo “Scoglio”, che si era ridotto ad un  museo a cielo aperto,  roba da salnitro, muffa e abbandono, con quattro vecchietti rimasti a far da vigili di sé stessi, spossessati di tutti i servizi sociali, ed io, come un antieroe sveviano” cercando del mio male le radici/ gonfio di cibo e d’imbecillità/ tranquillo me ne andavo dagli amici/ intriso di una strana/gioia di vivere anche nel dolore. Ma chi era Antonietta De Pace? Ultimamente ne hanno scritto molti, anche storici famosi, facendone un personaggio pittoresco, quasi una maschera teatrale, o esagerando in sperticata retorica. In realtà in lei non ci fu mai posto per la mediocrità, l’accomodamento, il compromesso. Rischiò molto, ma come talvolta capita,  la sua forza era nella sua fragilità di donna, la sua intensità e profondità risiedeva nella sua capacità di leggerezza, di saper giocare con la vita come lo si fa con l’arte. Antonietta aveva il dono (non raro nei salentini) dell’ironia, che usò magistralmente durante le quarantasei sfibranti udienze a cui fu sottoposta nel suo processo e la lunga segregazione nel carcere di Napoli.  Anzi dobbiamo dire che insieme al coraggio e alla forza d’animo, fu proprio l’ironia a sostenere il suo spirito duramente colpito da tante avversità  della vita. Era donna intrepida, donna estrema e definitiva, quelle donne che entrano nella storia a viva forza,  che si fanno storia, nonostante la storia cerchi di respingerle e ricacciarle  indietro, perché sovvertono un ordine millenario  costituito. Ad una signora di Galatina, che dopo la rappresentazione, mi chiese come avessi fatto a descriverla  così bene, (“Da come ne parla , sembra che lei l’abbia conosciuta  di  persona” ), risposi così:  “Signora , quando lei avrà occasione di venire a Gallipoli, vada nella città vecchia, s’infiltri nella mappa segreta di umide stradine, vicoli, corti, slarghi, nel pittoresco intrico di logge, altane, poggioli e mignani, scale, comignoli e bassi, giardini di limoni nascosti  nel cuore salso dello  “Scoglio”; e vedrà che  in quel teorema incantato di tetti e chiese che s’affacciano  sul mare, in quell’equilibrio di  leggiadrìa costruttiva che è  Gallipoli,  città-isola , ritroverà  come d’un tratto  lo spirito di Antonietta  De Pace. La ritroverà in certi volti, in certi sguardi  fieri di alcune ragazze gallipoline, sguardi che hanno ora la  forza inflessibile della roccia, ora la dolcezza quieta e trasognata della rosa bianca, ora  il  furore tempestoso dell’onda rabbiosa che si frange sugli scogli, ora leggerezza del volo dei gabbiani. E magari percorrendo la strada principale, che porta il suo nome, con la tramontana che leviga il carparo e la pietra leccese dei palazzi nobiliari, sarà lei stessa a venirle  incontro, Antonietta, col suo bel viso ardente, le labbra di corallo fiammeggiante, la matassa dei capelli  folti  nerissimi, quasi blu, e ricci, e quello sguardo  che  continua  anche oggi  ad “ aprire riviere”.

Roma, 28 gennaio 2018

 

Questa voce è stata pubblicata in Prosa, Ritratti di Augusto Benemeglio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *