di Antonio Errico
Molti conoscono quella poesia di Elli Michler che dice così: ti auguro tempo per divertirti e per ridere, per il tuo fare e per il tuo pensare. Ti auguro tempo non per affrettarti a correre ma semplicemente per essere contento. Ti auguro tempo perché te ne resti, e tempo per stupirti, per fidarti, non per guardarlo sull’orologio. Ti auguro tempo per guardare le stelle, tempo per crescere, per maturare, per sperare ancora una volta, per amare.
Spesso ci accade di pensare al tempo che abbiamo attraversato, che attraversiamo, a quello che speriamo di attraversare; ci accade così, spesso senza nemmeno un occasione consapevole; ci accade perché in fondo siamo un impasto di tempo, perché con esso ci confrontiamo, perché ad esso dobbiamo dare conto di quello che facciamo o non facciamo, di quello che siamo, che non siamo, che vorremmo essere, oppure non essere.
Poi ci sono circostanze in cui una più profonda considerazione diventa pressoché inevitabile, che impongono, quasi, un bilancio e una progettazione, un voltarsi indietro ed un guardare avanti, un pensarsi come si è stati e nel modo in cui si immagina di poter essere, a volte con malinconia, con rammarico, con rimpianto, a volte con felicità, con entusiasmo.
Accade che ci si dica: ho fatto questo, quest’altro e quest’altro ancora; ho fatto tutto quello che potevo, come meglio potevo.
Accade che ci si dica: potevo fare quello e non l’ho fatto; ho fatto in quel modo ma potevo fare diversamente, potevo fare meglio; potevo dare di più agli altri, a me stesso.
Basta poco, a volte, per pensarci: basta solo qualche minuto al rosso di un semaforo, prima di prendere sonno, un risveglio improvviso. Basta davvero poco, e uno fa il conto degli impegni disattesi, delle promesse deluse, dei patti con se stesso e con gli altri che invece ha rispettato. Allora si ripromette di fare tutto quello che non ha fatto, di mantenere gli impegni che non ha mantenuto, di onorare i patti, di rinsaldarli.
La fine di un anno, il principio di un altro, sono una delle circostanze che inducono a questa considerazione.
Il confine fra un anno ed un altro non è che una convenzione, eppure è una condizione che induce a pensare, a ripensare, a tentare di mettere ordine nella inevitabile confusione dei pensieri, delle azioni, dei progetti, dei propositi, delle intenzioni.
Ma il processo del mettere ordine nel tempo è incoerente con la natura del nostro tempo. Ogni giorno, ogni ora, perfino ogni istante, sono soggetti al caso, all’imprevisto, all’imponderabile, ad una combinazione di elementi e situazioni che non siamo in grado di decifrare, a coincidenze e a congiunture che non sappiamo comprendere. Con questa indeterminatezza, con questo enigma del tempo si deve, inevitabilmente, fare i conti, anche se si tenta – a volte disperatamente- di governarlo attraverso una classificazione, una suddivisione in millenni, secoli, anni, mesi, giorni, ore, minuti, anche se si inventano sistemi per misurarlo o più esattamente per tenerlo sotto controllo: calendari, agende, orologi: abbiamo ormai orologi dappertutto, in casa, al polso, sul cellulare, al computer, sul cruscotto dell’auto, orologi dappertutto, rappresentazioni più o meno consapevoli del nostro senso di precarietà, di finitezza, di provvisorietà, di insicurezza, caducità. Poi, ad un certo punto, mentre al semaforo si aspetta con impazienza che scatti il verde, mentre si controllano freneticamente le agende, mentre si sogna di possedere un’auto che sorvoli il passaggio a livello, risalgono alla memoria quei versi di Elli Michler. Per qualche secondo si viene sorpresi dal sospetto che fuori dalle agende, nel paesaggio intorno al passaggio a livello, possa esistere un senso del tempo diverso. Allora si guarda la campagna. Si pensa che se si arriva un minuto dopo, mezz’ora dopo, dove si deve arrivare, non cambia proprio niente, che la Terra gira ugualmente, che non mutano i destini tuoi né quelli degli altri. A quel punto, mentre dietro di te i clacson si scatenano, per qualche secondo si comprende che si può anche perdere tempo; anzi: che è assolutamente falsa l’espressione perdere tempo, perché quell’espressione è relativa ad una predeterminazione del proprio tempo, che in quanto tale è artificiosa e in quanto artificiosa è falsa. Nessun tempo è mai perso, per il fatto che il tempo è una dimensione esclusivamente interiore, è innanzitutto un rapporto con se stesso, unico, irripetibile e quindi carico di un senso che talvolta non riusciamo neppure a comprendere pienamente ma che possiamo soltanto assaporare attraverso una percezione del presente ed una sensazione determinata dalle occasioni di esistere che il presente ci offre.
Un anno va, un anno viene. Senza discontinuità, senza fratture. Dell’anno che va via vorremmo portarci dietro alcune cose, abbandonarne altre. Dell’anno che viene non possiamo sapere niente. Nei suoi confronti non possiamo avere altro che un sentimento di speranza. Ecco, forse è questo l’augurio più autentico e profondo che ci si possa fare. L’augurio di un anno in cui non si sia costretti mai ad avvertire un vacillamento della speranza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 31 dicembre 2017]