di Antonio Errico
Arthur Rimbaud non era un fervido credente, per cui potrebbe apparire sorprendente che nella sua opera visionaria, abissale, ribollente, si ritrovi una poesia sul Natale che dice così: “Dallo stesso deserto,/ nella stessa notte,/ sempre i miei occhi stanchi si destano/ alla stella d’argento,/ sempre,/ senza che si commuovano i Re della vita,/ i tre magi, cuore, anima, spirito. Quando/ ce ne andremo di là/ dalle rive e dai monti,/ a salutare la nascita del nuovo lavoro,/ la saggezza nuova, la fuga dei tiranni e dei demoni,/ la fine della superstizione,/ ad adorare – per primi! – Natale sulla terra!”.
C’è solitudine, stanchezza, sfinimento, in questi versi. Ma c’è anche la speranza di una saggezza nuova, di una nuova esperienza di senso, di un diverso confronto con l’universo del sé e dell’Altro, di un ripensamento dei modi con cui stabiliamo i rapporti con il mondo e con gli esseri che il mondo lo abitano.
Una nuova saggezza, dice Rimbaud.
La saggezza non è mai assoluta: è sempre relativa ai contesti, alle circostanze, agli accadimenti. Quello che poteva essere saggio appena ieri, oggi probabilmente non lo è più. Quello che può essere saggio oggi, probabilmente non lo sarà più domani. Allora si ha bisogno sempre di una saggezza nuova, di un pensiero capace di tessere connessioni fra la Storia, il presente e il futuro, di una costantemente rinnovata consapevolezza che tutto quello che accade dipende se non interamente comunque in gran parte da noi, dalle nostre decisioni o indecisioni, dalle comprensioni e dalle incomprensioni, dalle attenzioni, dagli altruismi, dalle disponibilità a diventare diversi da come siamo, a tenderci verso gli altri e soprattutto verso chi da noi per una qualche ragione si allontana. Da noi e dalle scelte che facciamo dipendono le fortune e le sfortune, il benessere e il malessere, lo sviluppo e la decadenza. Dipende tutto da noi.
Siamo noi a decidere se presentarci a noi stessi e agli altri con le fattezze di quei tiranni e demoni di cui dice Rimbaud, oppure con la coscienza di sapienti, saggi, come i Magi che seguono una luce di stella. Forse la luce che conduce verso una verità ininterrottamente nuova, che per essere compresa pretende la disponibilità a rinunciare alle certezze e ad accogliere qualcosa e qualcuno, un’idea o una creatura, che fino a quel momento è rimasto sconosciuto, a lasciarsi sopraffare da profonde interrogazioni sull’essenzialità delle cose umane, sul loro principio e la loro fine, su quelle sovrumane e sulla loro eternità.
Forse è questa disponibilità alla rinuncia e all’accoglienza, forse è questo lasciarsi sopraffare da impensate interrogazioni, il segno concreto di una saggezza nuova.
Chi e quanti di noi, oggi, siano disponibili a questa saggezza nuova, nessuno può saperlo.
Ma il Natale sulla terra, come dice Rimbaud, come in tanti hanno pensato e detto, pensano e dicono, non può essere altro che questo, non altro che un pensiero che si apre, si spalanca, verso il nuovo, che si inoltra in territori sconosciuti, che accoglie l’Altro, che si avvicina all’Altro e lascia che l’Altro si avvicini. Il contrario comporta egoismo, avarizia, rancore, barriere che si alzano, conflitto, degradamento, degenerazione.
Noi pensiamo a Natale come a una promessa di rinnovamento. Ma nulla si può rinnovare senza un ripensamento delle concezioni che abbiamo del mondo e dell’esistenza, senza una diversa coscienza e una diversa considerazione dei nostri concetti e dei nostri comportamenti.
Forse dovrebbe essere ogni giorno Natale e ogni giorno dovremmo chiederci cosa e quanto noi dobbiamo agli altri e cosa e quanto gli altri devono a noi. Dovremmo fare il conto di questo, con onestà. Probabilmente scopriremmo di essere in debito con molti di coloro che conosciamo e, approfondendo, anche con molti di coloro che ci sono sconosciuti.
Che cosa possono significare mai le parole che dicono di una saggezza nuova se non la speranza di realizzazione di una sintonia con il tempo: con il cuore, con l’anima, con lo spirito del tempo, come dice Rimbaud. Ma poi, cosa sono mai il cuore, l’anima, lo spirito del tempo, se non il senso profondo con il quale ciascuno attraversa l’ istante che gli è stato concesso in comodato d’uso.
Ogni tempo che viene è sempre diverso dal tempo passato e da quello che verrà. La saggezza nuova forse consiste nel riuscire a riconoscersi nello specchio del tempo.
Natale, adesso, richiede, implora, una saggezza nuova. Un pensiero che sappia scandagliare le profondità fino a rintracciare i significati essenziali, i valori radicali, oppure che sappia alzarsi fino al cielo per rivelarsi le ragioni superiori: quelle che non possono mai subire le bizzarrie del tempo. Ecco: è in nome delle ragioni della terra e di quelle del cielo che noi possiamo dirci buon Natale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 24 dicembre 2017]