di Antonio Errico
Non si scrive più. Si scrive male. Così si dice. Si è perduta la pratica della scrittura. Si è perduto anche il senso. Non c’è più il nesso fra scrivere e pensare, fra la formulazione del concetto e la sua traduzione in una struttura formale.
Si dice che arrivano generazioni senza conoscenza dei modi e delle forme dello scrivere, persone senza lessico e senza sintassi.
Si dice così ma non è vero. E’ un equivoco, un fraintendimento probabilmente determinato da un’idea precostituita della scrittura, da un’adesione ideologica o affettiva a modelli assimilati, da una formazione acquisita che si considera l’unica possibile, l’unica funzionale. Il fatto è, invece, che la scrittura cambia come tutte le cose che si costituiscono come una rappresentazione del mondo. La scrittura è una rappresentazione di un’idea del mondo, collettiva e individuale. Cambia come cambiano gli esseri che con essa stabiliscono un rapporto, come cambiano i loro modi di comunicare, di esprimersi, di dire i pensieri che hanno, i sentimenti che provano, le emozioni che vivono. Cambia, e in maniera determinante, in relazione agli strumenti che si hanno a disposizione.
Si dice che si tratta di una regressione culturale. E’ falso anche questo. Si tratta di un adeguamento culturale. L’adeguamento di elementi e forme è una circostanza strutturale e caratterizzante di ogni cultura.
Certo, si scrive in modo diverso, con molti e diversi strumenti. Forse, nella storia della civiltà, non si è mai scritto tanto. Quelli che si chiamano nativi digitali, la prima cosa che fanno, appena svegli, è scrivere. L’ultima cosa che fanno prima di addormentarsi è scrivere. Con il loro computer, con il loro smartphone. Scrivono tutto il giorno. Con un linguaggio rapido, contratto, concreto, informale, essenziale, Con una sintassi che rinuncia alla regola codificata, privilegiando l’immediatezza del comunicare. Scrivono di tutto, per tutto, elaborando convenzioni nell’ambito di comunità virtuali più o meno ristrette, più o meno allargate.
Scrivono senza schermature, senza mediazioni. Con una spontaneità che riduce sensibilmente il grado di formalizzazione e approssima il gesto della scrittura ad un gesto naturale.
Scrivono mentre indossano il pullover, mentre in pullman vanno e vengono da scuola, mentre nei pomeriggi stanno facendo i compiti di matematica o di storia, di chimica, filosofia, fisica; scrivono senza grammatica mentre studiano grammatica italiana, inglese, latina.
Passano da una tastiera all’altra con una velocità vertiginosa; consumano simultaneamente esperienze di comunicazione, espressione, riflessione; combinano le sfere della ragione e dell’emozione. Scrivono in qualsiasi ora del giorno, in qualsiasi luogo. Nessuna generazione ha avuto una relazione con la scrittura con la stessa costanza, con la stessa intensità.
Forse a svantaggio delle forme, delle formule, delle formalità, ma a vantaggio dell’immediatezza e della spontaneità.
Stiamo vivendo l’esperienza di una nuova modellizzazione della scrittura come di molte altre espressioni della cultura, la realizzazione di un processo cognitivo che elabora una diversa rappresentazione mentale o teorica della struttura essenziale.
Così ci chiediamo se quello che accade sia un bene o sia un male. E’ una domanda giusta, opportuna, anche naturale. Ma poi occorre anche domandarsi altre cose, dice Raffaele Simone alla fine di un saggio famoso che si intitola “La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo”. Dice che probabilmente occorre domandarsi se lo spirito analitico sul quale la nostra cultura si è basata per alcuni secoli non abbia passato il limite. Da tempo la cultura moderna mostra segnali di insofferenza verso l’analiticità. Simone ricorda Leopardi che nello “Zibaldone” scriveva: “ L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia”.
Forse facciamo fatica a comprendere i fenomeni di mutazione che sono accaduti e che stanno accadendo e di conseguenza risulta difficoltoso accettarli.
Probabilmente la fatica a comprendere e la difficoltà ad accettare sono dovute alla circostanza che è accaduto ed accade tutto con una rapidità che non ci consente di recepire i fenomeni compiutamente. Si fa appena in tempo a rendersi conto che qualcosa è cambiato e ci si ritrova ad osservare un ulteriore cambiamento. Come per molti altri fatti della cultura, con la scrittura sta accadendo questo. Ci si confronta con un universo che si è configurato ed ha pervaso i contesti nel volgere di un brevissimo tempo.
Allora, forse per diffidenza, forse per comprensibile disorientamento, forse per una più o meno consapevole nostalgia, cerchiamo dei modi per difendere i nostri codici, i nostri canoni, le nostre conoscenze di riferimento che consideriamo efficaci, consolidate, insostituibili.
Ma le generazioni che vengono hanno altri codici e altre conoscenze di riferimento. Non sono migliori o peggiori. Sono conoscenze e codici diversi, o che vengono applicati diversamente. E’ sempre successo. La scrittura del Novecento – tanto quella quotidiana quanto quella letteraria- è stata diversa da quella dell’Ottocento, e quest’ultima era diversa da quella del Cinquecento, a sua volta diversa dalla scrittura del Trecento. Le generazioni di questo secolo hanno un altro modo di scrivere, come hanno un altro modo di pensare, di parlare, di esistere. Hanno una scrittura che rassomiglia al loro abbigliamento, alle loro pettinature, ai loro comportamenti. Forse di questo si dovrebbe essere contenti: del loro aver determinato una coincidenza fra la personalità e la scrittura, dell’aver messo in atto un processo di riduzione della formalità e di incremento della densità espressiva.
La scrittura cambierà ancora. Ma non nel tempo di un secolo. Cambierà nel tempo di pochi anni. Arriveranno altre generazioni che porteranno pensieri nuovi e nuovi modi di parlare, di scrivere, perché nuovi saranno i loro modi di essere e di vivere. Così, coloro che adesso sono giovani e che allora non lo saranno più, si ritroveranno addosso la nostalgia delle loro scritture, come ora, noi, ci ritroviamo addosso la nostalgia delle nostre.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 17 dicembre 2017]