di Antonio Devicienti

Gentile Signor Pessoa,
certamente può sembrare irriverente che un perfetto sconosciuto Le scriva, ma sia indulgente, La prego: l’amore e l’ammirazione di lettore forse mi giustificano.
Se anch’io possedessi degli eteronimi, ebbene, potrebbero essere voce (una voce dal Suo futuro e dal mio presente che qui coincidono), oppure prossima lontananza (ingegnoso ossimoro, spero, ch’esprima l’innegabile distanza temporale che ci separa e l’altrettanto innegabile vicinanza di chi La legge con passione).
Desidero ringraziarLa per le pagine in cui si dà a vedere la soglia sottilissima tra reale e immaginario, tra percezione dell’esistere e desiderio, tra possibile e impossibile, tra sognato e non realizzato, tra attesa e scorrere del tempo.
Non dimenticherò mai Lisbona (la Sua Lisbona, ma anche, mi sia consentito, quella ch’è diventata la mia Lisbona respirata in una meravigliante settimana di primavera di qualche anno addietro) – è proprio vero che «non ci sono […] fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole».
Un caro saluto [A. D.]
