di Antonio Devicienti
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Che cosa sa e che cosa realmente comprende chi non vive in un corpo in difficoltà di chi, al contrario, deve fare i conti con una limitazione, una mancanza, un impedimento di carattere fisico?
Nulla. In tutta onestà (almeno facendo riferimento alla mia esperienza) nulla.
Colui che, invece, ha “ossa di cristallo”, che sa già che non potrà vivere a lungo può dire ai “sani” che cosa significhi “vivere” – spesso il valore e la commozione di vivere non vengono nemmeno percepiti, ma un corpo che limita e impedisce i movimenti sembra ricordare continuamente le urgenze e le mancanze del vivere. Ovviamente non si afferma qui il paradosso secondo il quale occorra una menomazione o una malattia per accorgersi finalmente di vivere (sarebbe falso e banale, superficiale e infantile affermarlo), ma è ora che il corpo riacquisti identità e dignità proprio in un tempo in cui esso, ossessivamente al centro dell’attenzione del mercato e dei mezzi di comunicazione di massa, rimane continuamente oggetto d’interesse – ma, nello stesso tempo, si rimuove da esso tutto quello che possa richiamarsi a una menomazione, a una malattia, alla morte. Riducendo il corpo e il suo aspetto a merce si mercifica anche il vivere e si sottrae l’individuo ai necessari spazi di silenzio e di meditazione.
Ecco: Michel Petrucciani, personaggio pubblico e genio della musica, sempre consapevole dello stato precario della propria salute, dirige verso il pubblico un’energia creativa e creatrice di rara forza e intensità che, superando le limitazioni impostegli dal corpo, fa dono alla musica della grazia di esprimersi proprio tramite un corpo in difficoltà.
È infatti falso o, per lo meno, pregiudiziale credere che la musica sia attività puramente “spirituale”, forse addirittura molto più di altre attività umane: nulla di quel ch’è attività umana può separare materia e spirito, lo spirito avendo bisogno del corpo per esprimersi e per dar vita alle evidenze concrete della sua attività – la tastiera è muta e inerte senza le dita che la sfiorano; Michel Petrucciani sostituisce un corpo, diciamo usando un orribile termine, “sano” donando alla musica il proprio corpo che non si rassegna a certe assenze o difficoltà e che sfida l’arroganza dei “sani”: quello di Petrucciani è un corpo che non sempre sarebbe stato capace di eseguire i gesti necessari per l’esecuzione musicale e che rifiuta i luoghi comuni che pretendono di stabilire quale sarebbe un corpo “bello”, “in salute”, “robusto”; il pianista francese restituisce il proprio corpo in difficoltà alla pura gioia creatrice. Scorporata del corpo quale lo vogliono i luoghi comuni e i pregiudizi, le leggi aberranti del mercato e i canoni della moda, la musica di Michel Petrucciani si riveste di questo corpo nuovo che non suscita pietà o ribrezzo, ma che mostra, gioiosa e fiera, la propria naturale, spontanea bellezza.
È noto che il padre del musicista gli aveva costruito un parallelogramma di metallo grazie al quale Michel poteva azionare i pedali del pianoforte, qualcuno attribuisce la straordinaria mobilità delle sue dita alle deformazioni ossee delle mani – ma essenziale è che Petrucciani abbia fatto del suo corpo strumento della propria musica esattamente come lo fecero e lo fanno tutti i musicisti.
E sarà forse per questo che Body and Soul fu un pezzo molto amato da Michel Petrucciani: posso infatti immaginare il grande pianista meditare, mentre suona e improvvisa sul pezzo, meditare su sé stesso, un sé stesso alla lettera “luogo” nel quale l’anima e il corpo essendo una sola realtà vivente e terrestre creano musica, risultato ben udibile della congiunzione tra la mente che pensa e inventa e immagina e il corpo che sente, desidera ed esegue.
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