di Antonio Devicienti
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Stefan Vladislavovich Bakalowicz, Il poeta romano Catullo legge la sua poesia, olio su tela, 1885, Galleria Tret’jakov, Mosca.
Hesterno, Licini, die otiosi
multum lusimus in meis tabellis,
ut convenerat esse delicatos:
scribens versiculos uterque nostrum
ludebat numero modo hoc modo illoc,
reddens mutua per iocum atque vinum.
Atque illinc abii tuo lepore
incensus, Licini, facetiisque,
ut nec me miserum cibus iuvaret
nec somnus tegeret quiete ocellos,
sed toto indomitus furore lecto
versarer, cupiens videre lucem,
ut tecum loquerer simulque ut essem.
At defessa labore membra postquam
semimortua lectulo iacebant,
hoc, iucunde, tibi poema feci,
ex quo perspiceres meum dolorem.
Nunc audax cave sis, precesque nostras,
oramus, cave despuas, ocelle,
ne poenas Nemesis reposcat a te.
Est vemens dea: laedere hanc caveto.
O Licinio,
ieri, fedeli al poeticum otium,
abbiamo giocato coi miei quaderni
scrivendovi raffinati versi.
Ognuno di noi dettando le sue poesiole
giocava ora con un’immagine ora con la metrica
scambiandosi le parti
ispirato dal vino.
Me ne sono andato
così rapito dal tuo spirito
che non ho potuto né cenare né dormire.
Mi sono rivoltolato nel letto
(bramavo l’alba
per essere di nuovo con te).
Ma pur estenuato dalla stanchezza –
prone le membra sul letto –
ho composto per te questi versi
testimoni del mio struggimento.
Accettali, ti prego
e non disprezzarli a che Nemesi
non te ne chieda conto:
è la dea della vendetta.
C’è ancora bisogno di ribadire la modernità di molti poeti dell’antichità greca e latina? – certamente no, anche considerando il fatto che si torna continuamente a “tradurli”; da parte mia ho provato a inventare un testo in italiano (dotandolo tra l’altro di strofe pur nell’adozione del verso libero) che esprimesse la suggestione che promana dai versi catulliani e che tentasse di essere, contemporaneamente, “fedele” e “infedele” all’originale – ché ogni lettore, quando legge, espropria l’autore della sua opera dando vita a una completamente nuova.