Manco p’a capa 239. Che fare? Dobbiamo copiare i Cinesi

di Ferdinando Boero

Usai una parte dei finanziamenti alla ricerca per acquisire le attrezzature di base per allestire il mio primo laboratorio. Un buon microscopio costava come un’automobile, e un rivenditore mi disse: eh, i microscopi non si vendono quanto le auto; il mercato è ristretto, la domanda è bassa. In altri casi, però: eh, il prezzo è alto perché la domanda per questo prodotto è alta. Che fossero tanti o pochi a comprare, il prezzo era sempre alto. Le leggi dell’economia non erano mai a mio favore.
Paradossi ben più stridenti con la logica, nel corso dei decenni, si sono realizzati a livello globale. L’Italia aveva molte industrie e una classe operaia numerosa. Per limitare l’inquinamento e lo sfruttamento della manodopera furono istituite leggi per la protezione dell’ambiente e fu adottato lo statuto dei lavoratori, riducendo i margini di guadagno delle aziende. Gli imprenditori iniziarono a ridurre i costi: se vendo auto in Brasile, mi conviene costruirle lì, invece che in Italia per poi esportarle. Si azzerano i costi di trasporto. In “certi paesi” le leggi a protezione dell’ambiente e dei lavoratori erano molto permissive: conveniva produrre laggiù, inquinando e sfruttando, e poi portare le merci qui, alla faccia del Made in Italy certificato dal marchio. Il processo fu chiamato delocalizzazione. Le industrie iniziarono a chiudere gli impianti, licenziando i lavoratori, ed aprirono in Cina, India, Vietnam, Corea del sud, nell’Europa dell’est e in nord Africa. Le meganavi portacontainer ci portano i beni prodotti altrove: il mercato diventa globale. Il fenomeno iniziò in USA e Giovanni Arrighi disse che la classe operaia USA era in Cina. Dopo poco, anche la nostra.

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