di Antonio Errico
Il 21 febbraio del Novantanove, a Capurso, moriva Vittore Fiore: pochi giorni dopo il riconoscimento da parte del Consiglio dei Ministri, del vitalizio previsto dalla legge Bacchelli, attribuito a personalità che onorano la patria in diversi settori. L’ultima volta che lo vidi fu in un albergo di Bari in occasione di un convegno. Parlammo a lungo seduti al divano della hall. Prima di andare via mi disse: salutami il cielo del Salento. Lo avevo incontrato per la prima volta, una sera che forse era di un agosto che gli anni Ottanta volgevano al finire. Su un terrazzo di Castro, Vittore Fiore guardava l’infinito del mare e raccontava con una voce che era come quella con la quale si raccontano le fiabe. Invece il suo racconto aveva la concretezza pietrosa della Storia. Anzi, per me lui era la rappresentazione fisica della Storia: vissuta sofferta amata. Anche la sua poesia era storia: dalla storia aveva inizio, con la storia si concludeva. Anche la sua poesia d’amore. Perché per Vittore Fiore non c’era -non ci poteva essere – una storia che non manifestasse o che comunque non custodisse segretamente un bisogno d’amore, una tensione verso l’amore, una speranza. La poesia era il suo modo di osservare, e giudicare, i fatti con la ragione del sentimento. La poesia è stato il metodo che ha connotato la sua vicenda esistenziale, politica, culturale (tre termini che Vittore impastò in passione sola), il pensiero del meridionalista capace di annodare, con i fili del presente, passato e futuro, Sud ed Europa. Un pensiero svincolato da qualsiasi schema; un’esistenza dedicata interamente al culto della libertà; una capacità straordinaria di cominciare sempre qualcosa di nuovo, di rimettere tutto in discussione, senza risparmiarsi mai, senza mai lasciare spazio alla disillusione. Su una terrazza di Castro, mentre la sera scivolava afosa e leggera, Vittore Fiore raccontava storie di lotte, di confino, di meridione, di civiltà, di un paese al Sud del Sud, e di una piccola casa sulla ferrovia, e di quel paese bianco, immobile, immutabile, chiuso in se stesso come se fosse vuoto, immerso in un’aria rarefatta, distillata, e di quel senso di solitudine che prende alla gola. Ritrovai quelle storie di confino anni dopo, in un libro intitolato “Nicola a Copertino”, con uno scritto di Rina Durante e una nota di Massimo Melillo. Quando Vittore Fiore morì, molti si dissero: la Puglia oggi è triste, ripetendo quel verso del “Male è dentro di noi”, che aveva dedicato a Tommaso: suo padre. Della Puglia, Vittore Fiore aveva scritto tutto: le radici, i miti, gli affanni, le utopie, i sogni, le prospettive, le forze e le debolezze, le rabbie, i sentimenti, le ragioni. Aveva scritto della Puglia proiettata in Europa, degli uomini che si sentono sicuri all’ombra di sontuosi campanili, degli amori che si accendono e si spengono nell’intrico dei vicoli assediati dall’afa delle sere. Della Puglia aveva scritto anche gli addii, Vittore Fiore. Su una terrazza di Castro, dove si tagliavano a fette le parole contro i seni azzurri delle grotte, Vittore Fiore raccontava della vita che fu. Al largo brulicavano lampare.