Italieni 9

di Paolo Vincenti

Satura 7

Santa Chiara. Ropp’arrubata, facetter’e porte ‘e fierro.  È sempre la stessa storia del cancello del Monastero di Santa Chiara: dopo che rubarono nella basilica napoletana, ci misero un cancello. La commissione d’inchiesta sulle banche, presieduta dall’eterno revenant della politica Pierferdi Casini, sa tanto di presa in giro, fumo negli occhi, pezza mediatica, così come l’improvvida sortita di Matteo Renzi sulla necessità di cambiare il governatore della Banca d’Italia Visco. È tipicamente italiano correre ai ripari quando ormai il danno è fatto. Dopo il fallimento delle banche marchigiane che rischia di ridurre sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori, dopo l’entrata in vigore dello sciagurato Bail- in, dopo l’incancrenirsi di una crisi economico finanziaria che ha devastato il ceto medio italiano, insomma, sempre dopo, chi ci governa cerca di correre ai ripari.  Ma trombare Visco e i vertici di Bankitalia, oppure Vegas e i vertici di Consob, per quanto giusto e necessario, avrebbe cambiato di molto le cose? Il problema degli organi di vigilanza nel nostro Paese è endemico. Le cosiddette Autorithy sono evanescenti, come denunciato da Sabino Cassese su “L’Economia” del Corriere della Sera del 9 ottobre 2017. È l’inerzia di un sistema, come sempre su “L’economia” del 23 ottobre scrive Francesco Daveri, che ci ha portato alla situazione attuale. Chi deve controllare non controlla e si rende necessario controllare il controllore. Ciò perché questi enti, in linea di massima, sono baracconi politici, dove i soloni che vi fanno parte non si impegnano più di tanto, e se non retribuiti, occupano quei posti per prestigio personale che comunque si traduce in un vantaggio professionale. Si sa che ogni governo deve distribuire incarichi e prebende a una nefanda colluvie di burocrati, super dirigenti privilegiati. Che dannati puzzoni, loro e chi li ha nominati.

Ho messo via. Il mondo è dei paradossi, si sa. Così, di fronte ad una immensa area del mondo sottosviluppata, che soffre guerre, denutrizione, calamità atmosferiche, cronica arretratezza, un’altra, meno grande parte del pianeta, vive nel benessere, in pace, nello sviluppo economico e per certe fasce minoritarie di popolazione addirittura nel lusso. Si suole indicare queste due macro aree genericamente come il sud del mondo, la prima, e l’occidente, la seconda. Nell’occidente prospero e industrializzato non manca chi, pur non facendo parte dei super ricchi, tuttavia non sa fare a meno del superfluo e vive al di sopra delle proprie possibilità. Liberarsi di quello che non serve, e non solo per fini umanitari, può diventare però un’esigenza, un gioco forza, a un dato momento della vita. Le circostanze varie e imprevedibili che ci coinvolgono possono metterci di fronte ad un tracollo economico, ad una temuta bancarotta, ad una separazione matrimoniale o divorzio, più semplicemente ad un trasloco. E dunque, si impone l’occorrenza di liberare un po’ di posto, di fare spazio. Quella di rinunciare al superfluo diventa una vera e propria arte, spiegata (o insegnata, che dir si voglia) in libri e corsi di decluttering:  eliminare il superfluo per vivere meglio. Occorre organizzarsi, semplificarsi la vita, specie quando essa è un caos. Allora per non rischiare di annegare nel mare magnum del disordine e della confusione che regnano nella propria casa, bisogna prendere delle decisioni coraggiose per quanto dolorose. E nel mentre si fa ordine, buttar via tutte le cianfrusaglie che ingombravano scrivania, armadi, garage, ufficio. Far ordine fisicamente porta come conseguenza quella di mettere ordine nella propria testa, spesso affollata da pensieri che si ammassano nevroticamente, convulsamente, senza apparente rimedio. Il decluttering ci fa risparmiare tempo prezioso e, attraverso l’ordine fisico, agisce come propellente psicologico sulla nostra testa, che, sgombera da inutili pesi, può respirare, lavorare meglio. Vada per lo scarto, dunque, e per la via della sostenibilità.

 

 

Oliver onions forever 

 

“Mompracem vivrà

 il canto di un bimbo si alzerà

la barca nel vento guiderà

a Mompracen la libertà

Mompracen vivrà

 il cuore più forte batterà

la luce negli occhi brillerà

a Mompracem

(“Mompracen vivrà  – Sandokan”)

 

Se ci fosse un Oscar della musica italiana, un premio unanimemente riconosciuto come il più importante, non avrei dubbi: bisognerebbe assegnarlo agli Oliver Onions. Hold on please, facciamo un passo indietro. Un giorno, nella mia ricerca di storie horror e noir, essendo un lettore onnivoro di questo genere di narrativa, mi imbatto in uno scrittore ancora inesplorato: George Oliver Onions. (1873 – 1961). Il libro è “Storie di fantasmi”, edito da Einaudi (1993).  L’incontro avviene in un mercatino dei libri usati e subito la folgorazione! È un attimo. Da Oliver Onions a Bud Spencer e Terence Hill e a Sandokan. Perché questo, mi sovviene, è il nome mutuato dai fratelli De Angelis per il loro gruppo. Non mi ricordavo i nomi di battesimo né la loro età, ero sicuro non fossero dei giovincelli. Quindi sono andato a cercare su santa Wikipedia degli internauti notizie su di loro. Effettivamente, Guido e Maurizio De Angelis hanno passato la settantina ma il loro ricordo rimane indelebile presso un pubblico che, se è ristretto, lo è solo con riferimento al loro nome ma non certo alle loro musiche. “Continuavano a chiamarlo Trinità”, “Più forte ragazzi”, “Anche gli angeli mangiano fagioli” “Piedone lo sbirro”, “Altrimenti ci arrabbiamo” “Il corsaro nero”, “Charleston”: pietre miliari nella storia del cinema e della televisione, solo che non tutti riescono ad “incollare” alla musica il nome degli autori.  Loro è la colonna sonora del telefilm “Zorro”, la prima serie televisiva Disney degli anni Cinquanta, trasmessa poi anche in Italia, con protagonista Guy Williams nei panni di Don Diego de la Vega/Zorro.   Loro è la colonna sonora del telefilm degli anni Settanta “Orzowei”, e qui gli argini della memoria non riescono più a contenere la piena e cedono irreparabilmente al tracimare del fiume della nostalgia. “Orzowei” era un telefilm tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Manzi, proprio il famoso maestro di “Non è mai troppo tardi”, trasmissione che negli anni Sessanta recupera moltissimi italiani dall’analfabetismo ancora poderoso soprattutto nel Sud. Orzowei era la storia di un ragazzo orfano che viveva nella foresta in mezzo a guerre sanguinose fra tribù rivali. Una storia violenta, ricordo, per la mia sensibilità di allora, quella di un bambino di 10 anni. Si trattava sostanzialmente di una storia di iniziazione del ragazzo alla vita adulta e all’entrata in società, complicata però dal fatto che Orzowei fosse di pelle bianca e dal rischio di essere ucciso in qualcuna delle dure prove che doveva sostenere. Ambientato nel SudAfrica fra le tribù dei Bantù, il libro mi introduceva a certe tematiche, quelle etniche, antropologiche, che fino ad allora mi erano estranee. E l’impressione prodotta dalla violenza della tribù di Swazi, cioè i negri di Bantù, che perseguitavano Orzowei, fu così durevole che io scrissi una specie di ingenua prosetta, che fu il mio primo pezzo creativo in assoluto. Questo libro era uno dei pochi che campeggiavano in casa in quegli anni. Non essendo infatti, la mia, una famiglia di intellettuali o professionisti, io non disponevo certo di una vasta biblioteca. Erano più che altro i regali di nonni e zii nelle disparate occasioni di compleanni, comunioni e cresime, che contribuivano a rimpolparla. Così conservo ancora gelosamente, lasciti della memoria, grossi tomi, sebbene usurati, quali “La natura e le sue meraviglie” edito dalla Walt Disney, “Robinson Crusoe”, “Remì senza famiglia”, “Il principe e il povero”, “Zanna bianca”, illustrati, tutti della Fabbri Editore, “L’universo intorno a noi” di Donald Menzel e “Il mare” di Robert Miller entrambi della Garzanti, i Racconti e fiabe della serie “I Quindici”, la Bibbia illustrata delle Edizioni Paoline. Ma ecco le associazioni di idee mi portano sempre lontano dal tema che ho scelto di trattare e io volentieri lascio il premio “digressione” ai saggisti della “Mimesis” o di “Stampa alternativa”. Tornando agli Oliver Onions, che affermano di avere scelto questo nome perché si pronunciava come scritto, e dunque facile da memorizzare, pensiamo ancora a “Buldozer”, “Piedone a Hong Kong”, “Piedone l’africano”, “I due superpiedi quasi piatti”, “Piedone l’egiziano”, “Uno sceriffo extra terreste, poco extra molto terrestre”, ecc.,  troppi, per poterli elencare tutti. Spaziavano fra i generi, dalla commedia all’italiana, al poliziesco, all’erotico, allo storico. E  poi, le colonne sonore televisive: “Sandokan”, “Zorro”, “Spazio 1999”, alcuni fra i telefilm che ho amato di più nella mia vita,  e poi le sigle di cartoni animati, come “Galaxy Express 999,” “Le avventure di Marco Polo”, “Il Gatto Doraemon,” “Rocky Joe “(col nome Gli Amici di Rocky Joe), “D’Artacan”, “Ruy, il piccolo Cid”, “Il giro del mondo di Willy Fog”. Ripercorrere la carriera dei fratelli de Angelis è un viaggio affascinante e suggestivo fra quelle musiche sedimentate nella memoria.

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