di Antonio Errico
Quando si comprende, con tristezza, che di uno scrittore non si potrà mai più leggere nulla di nuovo perché nel luogo dov’è andato chissà se si scrive e se anche si scrive non c’è modo di farlo sapere a chi vive, si va a riprendere quello che si è già letto, per un silenzioso, affettuoso saluto.
Così ho ripreso “La frontiera” di Alessandro Leogrande. Lui se n’è andato qualche giorno fa, a quarant’anni.
Ho riletto “La frontiera” cominciando dalla fine. Da quel capitolo in cui racconta del pomeriggio assolato che si ritrovò davanti allo sbalordimento del “Martirio di San Matteo” nella penombra di San Luigi dei Francesi.
Alessandro sapeva perfettamente che uno sguardo senza consapevolezze non può reggere la dirompenza espressiva di Caravaggio, che la scurità dei suoi colori accende abbacinamenti, che il groviglio di pulsioni sconvolge i pensieri, che i suoi significati si propagano in ogni luogo e in ogni tempo, che si moltiplicano, si riproducono, si sventagliano, che bisogna avvicinarsi ad essi con l’esperienza che la Storia consegna e con quella che ciascuno matura nel corso dei giorni. Tutto questo Alessandro Leogrande lo sapeva, e fu la sua consapevolezza che lo portò a sostenere che non appena ci si permette di osservare il mondo con lo sguardo del Merisi, “esso di rivela come un universo di violenza ferina”. Seguendo questo ragionamento, assecondando suggestioni, proponendo a se stesso comparazioni, Alessandro trivella stratificazioni semantiche fino ad arrivare al nocciolo di una parola tramata di implicazioni d’ogni sorta: storiche, geografiche, antropologiche, politiche, culturali, psicologiche, linguistiche, sociali, ideologiche, reali, immaginarie. Questa parola è frontiera.
Alessandro Leogrande ne dà una definizione in poche righe. Scrive: “Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano”.
Scrive che quella parola, frontiera, per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima ad altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze. La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai”.
Ecco. Alessandro Leogrande ha rappresentato la connotazione psicologica della parola frontiera, la relazione che essa intreccia con il pensiero. Ogni altra situazione di frontiera è una derivazione, una proiezione delle frontiere che ciascuno di noi traccia nel proprio pensiero.
Il progresso avviene sempre attraverso il superamento di frontiere. Ogni sapere è l’esito di un pensiero mandato in avanscoperta per capire che cosa c’è al di là di una frontiera. Ogni disciplina, ogni arte, ogni scienza esiste proprio per ipotizzare e verificare che ci sia qualcosa al di là dei limiti che ci sono stati imposti, che qualche volta noi imponiamo a noi stessi.
Sono soprattutto due i territori che le frontiere collocate nel nostro pensiero dividono: quello della certezza e quello dell’incertezza. Nel territorio della certezza abbiamo i nostri linguaggi, quelli che chiamiamo i nostri valori, i simboli, le narrazioni, il nostro passato, la memoria. Nel territorio dell’incertezza ci sono altri linguaggi, altri valori, racconti diversi dai nostri. C’è l’ignoto. Accade che dell’ignoto si abbia paura. E’ naturale; forse è anche inevitabile. Così cerchiamo di governare la paura rimanendo nel territorio delle certezze, rassicurati dalle frontiere. Di conseguenza, quando accade che l’ignoto superi le frontiere che ci rassicurano, noi ci sentiamo minacciati. Allora sentiamo il bisogno di rafforzare le frontiere. Però l’ignoto supera anche il rafforzamento e noi rispondiamo rafforzando ulteriormente, in un processo che non produce altro che continue cadute delle certezze, qualche volta anche il loro sgretolamento.
Forse l’equilibrio tra il noto e l’ignoto si può realizzare attraverso una disponibilità del pensiero a considerare la frontiera come una porta dalla quale si può entrare e dalla quale si può uscire, e poi rientrare e poi riuscire. Forse si potrebbe trovare, ancora una volta, un elemento di riflessione nella letteratura. Dopo Alessandro Leogrande si potrebbe richiamare Claudio Magris e la nitidezza delle sue immagini che contemperano la necessità dell’esistenza delle frontiere e al tempo stesso la necessità del loro superamento. In alcune pagine che si trovano in “Utopia e disincanto”, Magris sostiene che la frontiera è duplice, ambigua; talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte.
Ma dice anche che la frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto.
Allora, per una condizione culturale che contempli tanto la necessità della frontiera quanto la continua tensione al suo superamento, probabilmente è necessario un pensiero capace di muoversi lungo la frontiera in modo da consentirsi di rivolgere lo sguardo verso il territorio sconosciuto, per provare la curiosità di esplorarlo, di conoscerlo. Ma un pensiero così deve anche considerare che nello stesso istante c’è un altro pensiero che si muove lungo la stessa frontiera e volge lo sguardo verso un territorio che per lui è sconosciuto, forse con la stessa curiosità.
“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”, disse Jurij Gagarin.
Ma quaggiù le frontiere esistono. Bisogna tenersele. Esistono anche ragioni che le rendono necessarie. Quelle che non bisogna tenersi sono le frontiere nel pensiero. Senza le frontiere nel pensiero, tutte le altre non sono altro che pura convenzione.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 4 dicembre 2017]