“Slacciai il sacco, lo aprii e lo tirai fuori. Il tanfo terribile mi colse con una forza sconvolgente. Era nostro? Roba veramente nostra? Lo avevamo prodotto noi? Portai il sacco fuori dal garage e lo svuotai. La massa compressa se ne stette posata lì, come un’ironica scultura moderna, massiccia, rozza, beffarda. Vi ficcai più volte il manico di un rastrello e poi sparpagliai il materiale sul suolo in cemento. Quindi ne estrassi i vari oggetti a uno a uno, massa informe dopo massa informe, chiedendomi come mai mi sentissi così colpevole, come di violare una privacy, di svelare certi segreti intimi e forse vergognosi. Era difficile non venire distratti da questo o da quell’oggetto affidato all’apparecchio devastatore. Ma perché mi sentivo come una spia domestica? La spazzatura ha un carattere tanto privato? Arde nel proprio intimo di un calore personale, dei segni di una più profonda natura, indizi di aspirazioni personali, di fallimenti umilianti? Quali abitudini, manie, vizi, tendenze? Quali atti solitari, quali abitudini inveterate? Trovai alcuni disegna a matita di una figura di grosse mammelle e genitali maschili. C’era una lunga striscia di spago piena di nodi e cappi. Sulle prime mi parve una costruzione fatta a caso. Poi, guardando più attentamente, pensai di cogliere una relazione complessa tra il formato dei diversi cappi, il grado dei nodi (semplici e doppi) e gli intervalli intercorrenti tra nodi con cappi e nodi liberi. Una sorta di geometria occulta o di simbolica ghirlanda di ossessioni. Trovai una buccia di banana con dentro un tampone. Forse il lato sotterraneo e oscuro della coscienza del consumatore? Mi imbattei in un’orrenda massa grumosa di capelli, sapone e bastoncini cotonati per gli orecchi, scarafaggi spappolati, , anelli per aprire le lattine, garza sterile coperta di pus e grasso di bacon , sfilacci di filo per i denti, frammenti di ricambi per penna a sfera, stuzzicadenti con ancora impalati dei frammenti di cibo. C’era un paio di boxer a brandelli con tracce di rossetto, forse un ricordo del Grayview Morel.”
Don De Lillo, Rumore bianco, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2003, p. 279. Traduzione di Mario Biondi.