di Rosario Coluccia
Molti lettori mi scrivono lamentando i troppi anglicismi presenti nella lingua italiana. Un po’ di anni fa Arrigo Castellani, uno dei massimi linguisti del Novecento, scrisse che l’italiano è affetto da morbus anglicus; quella formula talvolta fu oggetto di ironie ma è condivisibile nella sostanza, anche negli obiettivi che sottintende. L’adozione di parole straniere non è un male di per sé, al contrario; è una linfa per le lingue vive, che si arricchiscono reciprocamente con scambi continui, dando e ricevendo parole. Ma i fenomeni vanno attentamente osservati e, quando è il caso, orientati.
Negli ultimi decenni, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, l’anglo-americano si è diffuso a livello planetario, per ragioni socio-economiche e politiche evidenti. Anche in Italia e cresciuta l’attrattiva della lingua inglese e in particolare, specie dopo il boom economico degli anni cinquanta del secolo scorso, dell’American English. Centinaia di parole inglesi sono usate dagli italiani nelle comunicazioni abituali e fanno parte della nostra lingua. Alcuni prestiti sono assimilati e irriconoscibili nella loro provenienza. Risuonano “italianissime” parole come “bistecca” (adattamento ottocentesco dell’ingl. beef-steak ‘costola [steak] di bue [beef]’); “grattacielo” (dagli inizi del Novecento, calco semantico dall’ingl. sky[‘cielo’]-scrapers [‘gratta’]); e molte altre perfettamente amalgamate alle strutture della nostra lingua. Nessuno penserebbe di escluderle dalla lingua quotidiana, ed è giusto così, ci mancherebbe.