di Antonio Devicienti
Il cortile interno dell’Università di Salamanca riaccoglie, dopo quattro anni, Fray Luis de León – accuse infamanti rivelatesi prive di fondameno l’hanno tenuto nel carcere dell’Inquisizione – ed egli ritorna alla sua cattedra, si dirige verso l’aula gremita, si rivolge all’uditorio: dicebamus externa die (ieri dicevamo – come se non fossero intercorsi quei quattro anni d’ingiusta reclusione – o, almeno, così dice la leggenda che mi piace pensare veritiera).
Fray Luis è uno studioso delle Sacre Scritture e un poeta, ha stretto amicizia con il musicista cieco Francisco Salinas, possiede una tempra e una dirittura morale fuori dal comune. Ama contemplare la notte stellata e la musica di Salinas immerge la sua anima in una dolcezza che lo eleva fino alla sfera del divino.
La Castiglia del suo tempo è attraversata da un fervore religioso senza pari, Fray Luis unisce slancio spirituale e rigore di studi filologici e linguistici, attraverso la lingua e la poesia conquista giorno dopo giorno il senso umano del suo stare nel mondo (il senso divino è, per lui, indiscutibile e acclarato).
Ex cathedra egli sembra trasfigurarsi, commenta il Libro di Giobbe e il Cantico dei Cantici con commovente partecipazione, la sera, solo nella sua cella nel cuore silenzioso di Salamanca, ripensa gli accordi che il suo fraterno amico Salinas gli ha fatto ascoltare nel pomeriggio, rivolge lo sguardo alle stelle perfettamente visibili nel cielo di Castiglia, riflette sul dogma dell’Incarnazione.
Una vita intera a studiare. Mai è mancato Fray Luis al suo impegno quotidiano, men che meno nelle carceri dell’inquisitore.