di Antonio Devicienti
Potrei sbagliarmi, ma studiare in una scuola il cui edificio è un antico palazzo nobiliare è un po’ diverso che studiare in edifici “moderni” – è questione di aura, di suggestioni, di qualità e colore della luce che filtra da antichi vetri, è questione di spazi che conservano (e mostrano) le stratificazioni del tempo.
Studiare al “Capece” di Maglie ha significato per me entrare ogni giorno in luoghi capaci di trattenere la presenza delle generazioni precedenti – ancora oggi sogno, talvolta, l’atrio del “Capece” ed è felicità percepita pur nel sonno, perché attraversare il grande portone che mette in comunicazione la Piazza esterna e l’atrio interno significava (e lo scrivo senza retorica e senza sentimentalismi) entrare in una nuova mattinata di scoperte.
Ho avuto tanti ottimi insegnanti, ma la gratitudine più tenace si rivolge sempre alla figura del professor Claudio Micolano – ricordo ancora perfettamente le sue lezioni dedicate ad Alceo e a Saffo, a Sofocle e a Omero, a Catullo, a Lucrezio, a Virgilio… Fu lui a parlarci di Salvatore Toma negli stessi anni in cui il poeta viveva allevando i suoi amati cani alle Ciàncole poco fuori Maglie, fu lui a farci i nomi di Girolamo Comi, di Oreste Macrì…
Ascoltavo e mandavo a memoria quei nomi che esulavano dai “programmi” scolastici tradizionali.
Ma non appena ero riuscito a risparmiare tre o quattro mila lire andavo nella libreria di fronte al “Capece” e compravo, emozionato ed entusiasta, le Bucoliche o l’Edipo Re – l’Edipo a Colono fu la tragedia che preparammo per l’Esame di Maturità (si chiamava anche ufficialmente così, allora) e il coro dedicato ai cavalli e al bosco sacro di Colono mi risuona ancora oggi, luminoso, nella mente.
Il cortile del “Capece”, concluso sul lato opposto all’ingresso principale da un arco a bugnato che immette allo scalone tardo barocco e limitato sui lati destro e sinistro da archeggiati vetrati, è lo spazio aperto (eppure protetto) del transito da un’ala all’altra del palazzo, degli intervalli a metà mattinata, dello sciamare in entrata o in uscita prima e dopo le lezioni.
Ancora oggi m’intrattengo con l’immaginazione in quel cortile, rivedo le mattinate di pioggia e, molto più spesso, la luce salentina che allagava finestre, intonaci, selciato, risento l’orologio del vicinissimo Municipio suonare i quarti d’ora – mai il cortile del “Capece” è stato prigione per me, ma sempre la pagina a cielo aperto di una passione, di uno slancio.