di Paolo Vincenti
Oggi ci si informa sempre più su Internet. La crisi dell’editoria tradizionale è lì a confermarlo. Ma si sa che Internet è il regno delle bufale, mentre la tv di stato è il forte delle “quasi verità” o “mezze bugie”, quelle ammannite dalla classe dirigente del momento che l’ha lottizzata.
Al di là di ogni deontologia professionale o codice di autoregolamentazione che si voglia, quello che passa sui canali nazionali è un messaggio sempre un po’ drogato, un’informazione edulcorata dalla volontà di potere di chi comanda, a discapito dei lettori/ ascoltatori, poco avvezzi a distinguo e analisi dei fatti e invece pronti a bersi qualsiasi tipo di fake news. Come chiamare altrimenti le bufale? Post verità? False verità? Informazioni diversamente vere? Alternative facts?
Su Internet, le panzane si propagano alla velocità della luce e una volta innescata la miccia non la si può più spegnere. Ma è insano informarsi sui social media, occorre sempre verificare le fonti e sottoporre le bolle on line ad un rigoroso fact cecking. “Le fake news sono solo la punta dell’iceberg di un mutato ecosistema dell’informazione che già influenza il funzionamento delle nostre democrazie e per questo deve essere oggetto di attenzione di tutti coloro che rigettano pulsioni censorie ma allo stesso tempo vogliono che la rete conservi quella spinta innovatrice anche dal punto di vista sociale che ha avuto all’inizio”, scrive Giuseppe A. Verri[1]. Tocca a noi cioè verificare l’attendibilità di un sito qualsiasi che abbiamo distrattamente consultato sull’i-phone in una delle pause di attesa nel disbrigo delle nostre pratiche quotidiane; anche perché “il cellulare non chiede scusa”[2] per le false notizie che leggiamo e le brutte figure che potremmo rimediare. Del resto non possiamo mica appellarci al Ministero della verità presente, come in 1984 di George Orwell (Esistono oggi dei siti di debunking, che smascherano le bufale). Occorre essere seri e cercare sempre le prove dei fatti.