Come appariva quel «Medioevo»[1].
di Mauro Di Ruvo
In un atto scritto per la monacazione del nobile Guglielmo, visconte di Marsiglia, redatto agli inizi dell’XI secolo, leggiamo:
Per iniziativa della misericordia di Dio onnipotente e col consenso della sua benevola clemenza – lui che non vuole la morte del peccatore, ma che al contrario si converta e viva – io Guglielmo, visconte di Marsiglia, mentre giaccio sul mio letto, nella malattia che il Signore stesso mi ha inviata, sono attorniato dai fratelli del monastero del beato Vittore, cioè da Guffredo, posto alla testa del suddetto monastero dall’abate Garnerio [di Psalmodi] come priore, e dagli altri confratelli; e questi, secondo il costume dei servi di Dio, hanno cominciato a suggerirmi che era venuto per me il momento di abbandonare la milizia del secolo, al fine di militare per Dio. Perciò, toccato grazie a Dio dalle loro esortazioni, ho sacrificato la mia chioma e secondo la regola di san Benedetto ho ricevuto l’abito monastico.[2]
Si tratta, come è evidente, di un episodio che non era affatto rado nell’Alto Medioevo, appartenente invece ad una larga schiera di gestes che sembravano essersi ascritte a una etichetta consuetudinaria sin dalla fine dell’VIII secolo, tra la Francia merovingica e quella carolingia, e che avrà ancora per molti secoli notevole influsso nella storia dell’Occidente cristiano. Era questa divenuta man mano più una pratica di moda cui ogni famiglia aristocratica era spinta, quasi per principio, a seguire attraverso la rappresentanza di alcuni suoi membri eletti piuttosto che una vera scelta vocazionale che esigeva il passaggio ad un altro statuto esistenziale, ad un tenore di vita non più civile, ma pur sempre strettamente elitario. In tal caso vi è un esponente della nobiltà guerriera (miles) che avvertendosi in prossimità di morte compie il passaggio tipico dei guerrieri delle chansons all’eremitaggio o alla clausura all’interno delle tepide e serene mura del monastero, dopo una vita trascorsa nel clamore delle armi e della mondanità[3]. Ma sebbene tali “imprese” abbiano dall’inizio costituito un modello di santità paradigmatica non solo nell’ammirazione del ceto nobiliare ma soprattutto di quello clericale e popolare, ben presto si riduce a un puro atto di tradizione e splendida recitazione da cerimoniale di rango. I frati monaci, da «servi di Dio» hanno suggerito sul letto di morte a Guglielmo di convertirsi all’altra milizia, quella del Signore. Ma era una scelta che rientrava a bene vedere nella volontà, sia del suo rango di appartenenza che dell’ordine monastico benedettino, di trasmettere ancora una volta l’immagine di un monachesimo aristocratico, per conservarne presso i fedeli il senso dell’altezza morale e della nobiltà propria della dedizione a Dio. L’idea che anche i migliori, i sovrani e i regnanti non potessero fare a meno di Dio, anzi, che loro più di tutti dovessero essere i più vicini alla nobiltà spirituale, i più idonei al modello di santità, forniva un esempio di grande eloquenza e potente suggestione presso la massa dei fedeli. «Molti tuttavia cercano di realizzare almeno simbolicamente quest’ideale, che appare come una garanzia di salvezza» ma per necessitas «non tutti possono farsi eremiti».[4]