Trasmissioni radio 18. Immaginando Julio Cortázar a Parigi

di Antonio Devicienti

Quante città sanno essere anche una biblioteca, anche una macchina delle storie, anche un collidere e mescidarsi d’innumeri universi? Non molte, a ben pensarci. E Parigi sembra possedere in grado supremo tale capacità.

Passeggiava, da solo, imboccando da Rue Martel dove abitava la Rue du Faubourg Poissonnière. Lavavano la strada secondo l’uso parigino, facevano scorrere l’acqua lungo le canalette incavate sotto il ciglio dei marciapiedi. Nelle tasche dell’impermeabile aveva sempre quadernetti e penne, ma gli bastavano la memoria e la fantasia. E lo sguardo.

S’ebbe un sobbalzo del respiro quando vide un ritratto del Che sagomato con lo spray su di un muro. Ogni notte gli ritornava in sogno il Comandante, la folla raccolta a salutarlo prima della partenza per la Bolivia e l’Oceano che restituiva il suo odore dal Lungomare dell’Avana. Sempre si risvegliava dopo il sogno nella penombra del suo appartamento, il ronzio del frigorifero dalla cucina, qualche motocicletta in strada, la luce dei lampioni attraverso le tende tirate. Talvolta si alzava, accendeva il giradischi mantenendo il volume bassissimo: Miles, la tromba di Miles, il sassofono di Coltrane. Teneva la luce spenta, scostava i tendaggi. Decideva che sarebbe andato a Saint Sulpice, la mattina dopo. Intanto, insieme con il jazz, ascoltava il respiro di Carol, tendeva l’orecchio a quel respiro, ai sogni che fanno sostare in un altro luogo mentre, contemporaneamente, si sta qui, adesso. Essere due persone in un solo corpo, due storie in una sola mente, due tempi dentro il medesimo presente.

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