L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo XII. Purg. XXX: “… e diessi altrui”

di Gianluca Virgilio

Purg XXX è uno dei pochi canti del poema dantesco la cui lettura consente di sostare lungo l’itinerarium ad Deum e di considerare la figura del personaggio-Dante nei suoi rapporti col narratore e coll’autore. Siamo nella selva del paradiso terrestre, la selva antica, e abbiamo già visto sfilare la mistica processione. Virgilio è uscito di scena, e in tripudio di fiori e di canti è comparsa Beatrice. Il tono del racconto è molto alto, sublime, come si addice ad una situazione fortemente drammatica. Dante, perduto il suo maestro, si sente ricondotto in uno stato di solitudine, tanto simile a quello della Vita Nuova[1], da cui lo risolleva un ben più severo maestro:

“Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora;

ché piangere ti conven per altra spada”

(55-57)

È facile ravvisare, dietro la durezza e la perentorietà di queste parole, il fren dell’arte dell’Alighieri, specialmente se si considera che quelle parole fanno seguito alla sequenza lirica dei vv. 22-33 (“Io vidi gia…”), “cuore palpitante dell’intero narrato dantesco della Commedia[2], alla reazione del protagonista alla comparsa di Beatrice (“E lo spirito mio…”) in cui l’Alighieri ripropone “uno schema ostentatamente mnemonico”[3], e alla contemporanea scomparsa di Virgilio (“Ma Virgilio n’avea lasciati scemi…”). Altrettanto dura e, direi, militaresca, la figurazione cui, con una similitudine, il poeta delega l’entrata in scena di Beatrice:

“Quasi ammiraglio che in poppa ed in prora

viene a veder la gente che ministra…”

(58-59).

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