di Gianluca Virgilio
Amore comincia a lasciare i suoi segni sul corpo dell’amante che a nessuno vorrebbe raccontare le sue preoccupazioni:
“onde io divenni in picciolo tempo di sì fraile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per la volontade d’Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era quelli che così m’avea governato. Dicea d’Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si potea ricovrire. E quando mi domandavano “Per cui t’ha così distrutto questo Amore?”, ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.” (V.N. IV, 1-3)
Il protagonista può legittimamente dire che Amore è causa del suo malessere, ma non può dire di chi egli sia innamorato. Amore è figura, “nel senso dell’agostiniano “significandi gratia””[1], di cui è lecito dire, il nome dell’amata è reale o immediatamente rimanda alla realtà (malgrado la sua connotazione divina) che occupa la mente dell’amante, e dunque di esso non si può dire. L’amante vuole distogliere da sé l’attenzione degli amici o di coloro che sono “pieni d’invidia”, i lauzengier della tradizione cortese provenzale, i quali vedono sul suo corpo i segni d’Amore, ma non conoscono la donna che li ha provocati. L’Alighieri sta qui ponendo le premesse per lo sviluppo successivo del racconto: l’amante-poeta dovrà lodare la sua donna (perché ella è degna d’una lode che tutti conoscano), epperò, come potrà egli lodarla se è necessario tener celato il proprio oggetto d’ amore?[2]. L’occasione gli è fornita da una donna che insistentemente lo guarda e che egli, a giudizio dei fedeli d’Amore, sembra (ma i fedeli d’Amore, lascia intendere il narratore, si sbagliano) ricambiare d’altrettanti sguardi: