L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo III. La scelta del volgare

di Gianluca Virgilio

(continuazione)

“Poi che purgato è questo pane dalle macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè dall’essere vulgare e non latino: che per similitudine dire si può di biado e non di frumento.” (Conv. I, v 1)

L’Alighieri ha spiegato le ragioni della particolare forma narrativa dell’opera (il parlare di sé) e le ragioni dell’inevitabile “gravezza” e “durezza” dei contenuti e dello stile, e ora prosegue giustificando la scelta della lingua adoperata per commentare le canzoni: il volgare. La “scusa” si rende necessaria, perché il Convivio esula dagli schemi della tradizione linguistica, che impongono la prosa latina[1]. La struttura dell’opera  – il commento è ordinato a chiarire i sensi delle canzoni – soccorre subito la “scusa” dantesca. Premesso che “lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile” (Conv. I, v, 7), e che il rapporto tra latino e volgare si può paragonare a quello tra “signore” e “servo” o tra “sovrano” e “subietto”, e tenendo conto che un identico rapporto intercorre tra canzoni e commento (il commento è difatti “servo alle ‘nfrascritte canzoni”, è detto in Conv. I, v, 6), Dante dimostra che un commento latino alle canzoni volgari produrrebbe un contrasto insanabile, una “disconvenevole ordinazione” (Conv. I, V 2) o “disordinazione”, perché il commento latino non sarebbe “servo” né “conoscente” né “obediente” delle canzoni medesime (Conv. I, v, 6) [2].

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