Esercizio di pazienza

di Gianluca Virgilio

Stamane ho trascorso un’ora nell’ufficio delle Poste, in attesa che arrivasse il mio turno per accedere allo sportello riservato al pagamento dei bollettini. Appena entrato nella grande sala d’attesa, mi son detto che la mattinata era persa, perché avrei dovuto star lì per almeno due ore, se non più: c’era così tanta gente, che si stava come sardine in scatola, e l’aria, sebbene funzionasse il condizionatore, era irrespirabile.  Ho preso il mio numero, il 522, e, per farmi un’idea dei tempi d’attesa, ho levato lo sguardo al display che campeggia  sull’alto soffitto: era appena scattato il numero 131. Ho fatto un calcolo a mente, 522 meno 131, e ho dedotto che solo 391 numeri mi separavano dal mio turno. In realtà sapevo bene che 391 numeri non corrispondono a 391 persone, perché molti utenti prendono il numero, ma poi vanno via, per sbrigare altri affari, col proposito, che spesso si rivela vano, di ritornare in tempo. L’operatore, infatti, quando al cambio di numero nessuno si presenta allo sportello, procede veloce con la numerazione, schiacciando il pulsante che modifica il display: chi c’è, c’è, e chi non c’è, non c’è, e se qualcuno non c’è, i presenti sono contenti. Devo dire che anch’io, davanti a quella folla, ho avuto la tentazione di mettere in tasca il tagliando col numero 522, d’infilare la porta e di uscire fuori dell’ufficio, all’aria aperta, per utilizzare quel tempo in qualche spesuccia quotidiana, comprare il latte, il pane, il giornale, e forse avrei avuto anche la possibilità di prendere il caffè al bar. Ma ho resistito a questa tentazione con uno scopo ben preciso: fare un esercizio di pazienza.

Comprare il pane è un’operazione facilissima e tranquillissima. Ma se, mentre compri il pane, ti metti a pensare che in quel momento nella Posta tocca a te e tu non ci sei perché sei impegnato a comprare il pane, e quindi ti toccherà ritornare per riprendere un altro numero, e chissà quando ti sbrigherai,  ti prende un’ansia che potrebbe indurti a fare qualche errore, come dimenticare che oltre al pane devi comprare anche il latte o, per la fretta, lasciare il resto sul banco o inciampare in qualcuno degli ostacoli di cui è disseminato il cammino della vita. Non è solo la psiche che ci potrebbe rimettere, ma anche il fisico.

Devo confessare che in gioventù sono stato spesso impaziente, come accade di solito ai giovani che vogliono tutto e subito, mentre le cose vengono sempre una alla volta (tranne i guai, s’intende). L’impazienza è causa di molte passioni nefaste, come l’ira e l’intolleranza, e determina perciò molte sventure. Dopo ogni eccesso di impazienza, mi sono sempre sentito molto stupido e impotente.

Quale migliore occasione di quella che mi si presentava stamane, per emendarmi dall’errore giovanile con un vero e proprio esercizio di pazienza?

Ho trascorso la prima mezz’ora in un angolino della grande sala d’attesa, guardando le persone intorno a me, salutandone alcune che conoscevo, volgendo lo sguardo alla porta ogniqualvolta si apriva per far entrare un nuovo utente. Così, per tenere impegnata la mente, ho classificato in tre tipologie codesti utenti: la prima, di coloro che rinunciano all’attesa dopo il primo minuto: preso il numero e calcolato all’incirca il tempo d’attesa, se ne vanno via per fare altre cose: se ne escono dall’ufficio borbottando e deprecando il cattivo servizio delle Poste, taluni imprecano contro gli impiegati, rei di fare la pausa caffè troppo spesso; la seconda, di coloro che rinunciano entro il primo quarto d’ora: sarebbero tornati, non sarebbero tornati? Chissà; se fossero tornati, avrebbero fatto in tempo? Il loro destino era incerto; la terza, di coloro che, superata la prima mezz’ora d’attesa, sarebbero rimasti fino al loro turno. Per riassumere: impazienti, scarsamente pazienti, pazienti. Vorrei ritrarre, in particolare, questa terza tipologia, cioè quella di coloro che, fermandosi, hanno dato agio all’osservazione. Alcuni erano giunti preparati, con giornali e riviste, sudoku e parole crociate, altri mettevano in pratica l’esercizio più diffuso di tutte le sale d’attesa del mondo meridionale: la chiacchiera (parli tu che parlo io, in un sovrapporsi di voci che rende impossibile al terzo escluso ogni intendimento). Altri ancora si dedicavano al controllo del corretto uso dei numeri da parte delle persone presenti. Si dava il caso, difatti, di tanto in tanto, che qualcuno facesse il furbo fingendo che fosse giunto il suo turno quando il vero detentore del numero chiamato era assente, contando sulla distrazione dell’impiegato e degli astanti. Ma si sbagliava, perché in certi casi la sorveglianza dell’uomo sull’uomo raggiunge livelli assai alti. In un luogo del genere, in una situazione come quella descritta, stai pur certo che vi è chi controlla non solo il display, ma anche e direi soprattutto l’esatta corrispondenza tra numero e persona, questo controllo essendo divenuto la ragione principale della sua attesa (solo con un certo sforzo, una volta giunto il suo turno, questa tipologia di persone ricorda la ragione vera per cui è lì da un’ora).

Dopo una buona mezz’ora in piedi, poca cosa per chi, come me,  nei suoi ricordi contempla le belle e felici notti trascorse presso una garitta oppure davanti all’armeria del battaglione ai tempi del servizio militare, ecco che si era liberata una sedia. Ho chiesto gentilmente ai miei vicini se qualcuno volesse accomodarsi, ma tutti hanno declinato l’invito; nel qual rifiuto ho letto il riconoscimento, da parte dei miei vicini, di un mio diritto, acquisito in base al principio dell’anzianità, non anagrafica, ma postale, essendo io lì, come ho detto, da circa mezz’ora. Seduti, si sosta meglio. L’osservazione lentamente, man mano che le membra del corpo si rilassano, cede il posto alla riflessione e poi, se si è in grado di eseguire bene l’esercizio della pazienza, alla contemplazione. Pensavo che il tempo che stava trascorrendo in quell’ufficio era il tempo del mio giorno libero, del quale potevo disporre come volevo, e che nulla mi vietava di occuparlo in una sala d’attesa, tra tanta gente che andava e che veniva. La contemplazione presuppone la contentezza e un certo autocompiacimento, e reca con sé un accrescimento di questi stati d’animo. Se mi fossi specchiato, forse avrei visto nel mio sguardo il sorriso del Buddha. Qualcuno penserà ora che io stia scherzando, ma si sbaglia: non ho mica tempo da perdere in scherzi, io!

Che mi crediate o no, fosse l’effetto o meno di una sorta di processo di autoconvinzione, io stamane ero contento di star lì, tra tutta quella gente che sostava e ripartiva, borbottava e chiacchierava, sorvegliava ed era sorvegliata; star lì tra flussi continui di energia vitale, star lì senza aver desiderio di nulla, vittima di una perdita di tempo priva di senso, che si sarebbe potuta protrarre per ore, senza nessuna motivazione, che non fosse quella meramente tecnica, la capacità degli impiegati di assolvere con solerzia al loro lavoro. La mia contemplazione, per la verità, non era del tutto pura, poiché la luce rossa del display sull’alto soffitto mi richiamava allo scopo per il quale ero lì. Insomma, dopo aver aspettato tanto, sarei stato davvero un imbecille se, una volta giunto il mio turno, non avessi risposto alla chiamata!

Tuttavia, ho creduto, almeno per qualche istante, di fare esperienza di che cosa sia la bellezza, un’esperienza estetica piuttosto rara, che solo in certe particolari condizioni l’uomo può vivere: l’assenza del desiderio, del senso, della volontà; e mi sono detto che la bellezza della Gioconda è tutta lì, nell’insensatezza del suo sorriso – al pari di quello del Buddha -, quale sarebbe riapparso in un mattino di giugno nella sala d’attesa d’un ufficio postale. E ho dedotto altresì che l’esercizio della pazienza è fondamentale per ogni esperienza estetica, tanto che mi sento di consigliarlo a tutti: scrittori, artisti, in primis quelli desiderosi di “arrivare”, e poi a tutti gli altri.

Come avevo osservato, molti utenti, preso il tagliando dalla macchinetta dispensatrice di numeri, si erano dileguati e, assorbiti dalle strade cittadine, non avevano fatto più ritorno, lasciando il display libero di numerare: 517, 518, 519, 520, 521. Ecco, finalmente arriva il mio turno. Mi levo in piedi, scuotendomi dalla contemplazione, nel frattempo ridivenuta osservazione, e mi avvicino allo sportello, tenendomi ancora a qualche distanza per una sorta di discrezione: il mio numero è infatti il 522, non il 521, ma intanto sono pronto allo scatto. Guardo l’operatore che sembra occupato a confabulare con un collega. Il vetro mi impedisce di sentire quello che si dicono, ma sembrano preoccupati. Giunge anche il direttore. Mi avvicino allo sportello, perché è chiaro, dopo qualche secondo, che al numero 521 non corrisponde nessuna persona presente. La mia mossa vuol dire: è il mio turno. L’impiegato capisce e mi rivolge la parola: “Spiacente, signore, i computer sono in blocco, e non sappiamo quando sarà ripristinata la linea”. “Grazie”, rispondo, “ritornerò domani”.

Domani, per un altro esercizio di pazienza.

(2013)

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