I resti di Babele 4. L’insostituibile essenzialità dei libri

di Antonio Errico

“Anche quando avevamo libri a nostra disposizione, molto tempo fa, non abbiamo saputo trarre profitto da ciò che essi ci davano. Abbiamo continuato come se niente fosse ad insultare i morti. Abbiano continuato a sputare sulle tombe di tutti i poveri morti prima di noi. Conosceremo una grande quantità di persone sole e dolenti nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire. E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremmo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra”. Così dice Granger nel finale di quella fiaba terribile che s’intitola Fahrenheit 451, portato allo schermo da Francois Truffaut. Quando il librò uscì, nel 1953, Ray Bradbury aveva trentatré anni.

Qualche tempo fa, quando ne aveva novantatré, in  un’intervista disse che abbiamo troppi cellulari, abbiamo troppo internet, che dobbiamo sbarazzarci di tutti questi aggeggi perché ne abbiamo davvero troppi.

Ad una certa età la mente vede dappertutto, in ogni direzione: vede il passato, il presente, il futuro. Sa comparare, prevedere, leggere i segni tracciati dai tempi. Ad una certa età non si ha più nostalgia, ma una straordinaria capacità di intuizione; gli eventi si percepiscono, si sentono come gli animali che sentono i terremoti. Ad una certa età si  acquisisce una sapienza che impedisce di mentire. Non si hanno più gli interessi, le ragioni, quel tipo di emozioni che motivano e giustificano la menzogna. Si è distanti da molti condizionamenti, da molte passioni.  Allora Ray Bradbury, alla sua età, avvertiva il pericolo dell’impoverimento, dell’appiattimento del pensiero che l’abuso della tecnologia può provocare. Rilevava il troppo: la sovrabbondanza che genera l’abuso che a sua volta determina una deprivazione di senso e di valore tanto del mezzo quanto del messaggio. Poi,  Marshall McLuhan sosteneva la tesi famosa secondo la quale il mezzo è il messaggio. Di conseguenza esiste  un eccesso di messaggi, che non sempre portano significati. Così Ray Bradbury, quell’uomo che aveva raccontato il pericolo sociale  e la tristezza esistenziale derivanti dalla distruzione dei libri, ribadiva l’essenzialità di una cultura e di una comunicazione che si verificano, si producono e si riproducono attraverso quell’oggetto di carta che i Vigili del Fuoco del suo romanzo provvedevano a bruciare con spaventosa sistematicità. Perché, almeno finora, soltanto i libri consentono di approfondire la conoscenza degli esseri e delle cose.

Talvolta può anche sorgere il dubbio che si tratti di posizioni anacronistiche assunte da chi non ha capito che sono cambiati gli alfabeti, i codici, gli strumenti della comunicazione e della conoscenza. Sì. Il dubbio può venire, ma è falso. E’ un alibi imperfetto.  Forse una prova può essere costituita dal fatto che un signore  al di sopra di ogni sospetto,  durante una conferenza stampa ha detto  di aver vietato l’uso del computer ai suoi due figli  per un tempo superiore a  45 minuti al giorno. Era Bill Gates.

(2016)

[Gli articoli pubblicati in questa rubrica sono una selezione di quella che dal 2010 Antonio Errico tiene, con lo stesso titolo, su “Nuovo Quotidiano di Puglia”.]

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