La danza dell’effimero in Umberto Fiori

di Simone Giorgino

In un bel film di Wayne Wang e Paul Auster, Smoke (1995), a un certo punto Harvey Keitel mostra a William Hurt il suo «progetto»: una collezione di circa quattromila fotografie scattate sempre dallo stesso posto, ogni giorno, alla stessa ora. Per comprendere meglio il senso di quell’enorme, insolito album, Keitel invita Hurt a scorrere le foto con calma, a soffermarsi con pazienza sui dettagli. Perché quelle foto, che a uno sguardo superficiale possono sembrare uguali, sono in realtà tutte differenti: cambiano, per esempio, le persone che di volta in volta attraversano quello scorcio di città, le stagioni, la luce, i colori. Dietro ogni foto, insomma, c’è una storia diversa, un messaggio da interpretare. C’è la struggente e umanissima danza di ciò che è effimero, transitorio, nella grigia scenografia – apparentemente fissa, ordinaria, anonima ­– di un paesaggio urbano.

Non so se Umberto Fiori conosce quel film, ma direi che un’esperienza analoga è alla base del clic che innesca la sua poesia, così come lo stesso autore ce la racconta in Le case vogliono dire, appena pubblicato [2013] dall’editore Manni come secondo titolo della Pantera profumata, la collana diretta da Antonio Prete che intende mettere in dialogo poesia e ragionamento attorno alla poesia, invitando alcuni importanti poeti contemporanei ad aprire le porte del loro ‘laboratorio’ creativo.

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