di Ferdinando Boero
Scandali, concorsi, familismo, TAR, blocco degli stipendi, scioperi, dipartimenti di eccellenza, valutazioni. Queste sono alcune delle parole ricorrenti quando si parla di Università. La parola “precari” non compare quasi mai. Non è una parola nuova. Nel 1981, per risolvere il problema dei precari, il Ministero attuò un provvedimento ope legis. Diecimila precari furono stabilizzati. In una botta sola entrarono diecimila ricercatori confermati. Tra i quali io. Laureato nel 1976, un anno di militare, borsa di studio CNR nel 1978, dopo tre anni sono di ruolo nell’Università. A vita. Non me lo meritavo. Ho passato il resto della mia carriera a cercare di meritare quel che mi era stato graziosamente concesso.
Quei diecimila assunti hanno costituito un tappo per le carriere di chi è venuto dopo. Un tappo che si è aggravato perché le politiche di reclutamento si sono raggrinzite (da noi l’Università non è un investimento, è un costo da tagliare). E così i sempre più scarsi docenti fanno progetti (se ne hanno la voglia e la capacità) per avere finanziamenti con cui pagare chi li affianca nella ricerca. Borsisti, contrattisti, assegnisti, in un certo senso anche i dottorandi. Tante parole per una: precari. Il docente assunto a vita potrebbe anche adagiarsi, non presentare alcun progetto, farsi aiutare dai dottorandi quando il sistema gliene concede uno (spesso vige il sistema di distribuzione a pioggia, per cui ogni tanto te ne tocca uno) e godere dello stipendio e della libertà di un posto di lavoro dove non esiste cartellino da timbrare. Ma i precari sono tantissimi. Segno che i docenti italiani si industriano per avere i soldi per pagarli. E più soldi riesci ad ottenere con la tua progettualità, più alto è il numero dei precari di cui ti circondi. Passano gli anni, e le prospettive sono sempre più scarne. Per loro ci sei tu, quello che ha trovato i soldi per assumerli, a fare da controparte. Si aspettano qualcosa. E giustamente. Ma l’unica cosa che puoi fare è di fare altri progetti, trovare altri soldi, e rendere perenne il loro precariato.
Certo, nel periodo di precariato dovrebbero costruirsi una figura scientifica, pubblicare, farsi notare per le loro capacità partecipando a congressi nazionali e internazionali. Ma, in Italia, farsi notare non conta gran che. Sono pochissimi quelli che hanno la possibilità di offrire un posto a vita. La competizione è fortissima. E se arrivano precari più validi, da “fuori”, e hanno caratteristiche idonee a quel che si fa nel laboratorio che bandisce il posto, è bene prender i migliori. La logica “locale” è destinata a perdere. Bisogna assumere i migliori, in modo che si facciano carico di scrivere progetti, che li vincano, che li sappiano gestire. Producendo altri precari.
Ora la massa di precari nel sistema universitario e in quello degli enti di ricerca è all’emergenza umanitaria. Non avranno una pensione, non hanno stipendi che permettano di metter su famiglia. I precari della ricerca sono innamorati del loro lavoro. Se fossero ricchi lo farebbero gratis. Quasi lo fanno gratis, vista l’esiguità dei loro stipendi. Finiti i contratti spesso continuano a lavorare, per “terminare” il percorso di ricerca iniziato.
Memore della mia storia di “miracolato” dall’ope legis, non posso che sentirmi in colpa. Che fare? Smettere di stimolare la curiosità dei miei studenti? Smettere di cercare di innescare processi mentali che li portino a pensare che la ricerca scientifica è il mestiere più bello e appagante che ci sia? Spingerli lontano dai percorsi scientifici, invitandoli a seguire percorsi di formazione più facilmente spendibili nel mondo del lavoro?
Poi mi dico: se, da figlio di portuale, qualcuno mi avesse dissuaso dal voler fare il biologo marino, e ci fosse riuscito, avrei vissuto una vita egualmente appagante (avrei fatto il portuale anche io, probabilmente) ma non quanto quella che ho vissuto. E’ stato un rischio rinunciare a un lavoro sicuro per prendere una borsa del CNR. Reputo che, visto il privilegio che ho ricevuto, avrebbero dovuto assumermi temporaneamente nel 1981, e poi verificare, magari cinque o sei anni dopo, se mi ero meritato quel miracolo. Spedendomi sulle calate del porto di Genova in caso di scarso rendimento intellettuale. Il precariato serve per verificare l’attitudine alla ricerca. Le valutazioni di questa attitudine sono già state messe in atto.
Molti, troppi precari hanno già l’abilitazione a professore associato. Alcuni l’hanno anche da professore ordinario. Il loro lungo precariato ha dato al “sistema”, attraverso le abilitazioni, la possibilità di verificare se meritano o meno il tanto sospirato “posto a tempo indeterminato”. Ma chi viene abilitato e non ha già un posto dal quale avanzare di grado, non ha quasi speranza di poter essere chiamato da un’Università..
Gli strumenti valutativi sono già stati messi in atto, con le abilitazioni a professore associato e a professore ordinario. Si potrebbe iniziare a assumere come professori associati gli abilitati a professore ordinario che siano in condizione di precariato. Modificando nel frattempo, e rendendoli molto più severi, i requisiti per l’abilitazione. Dicendo alle Università: se chiami abilitati precari che non siano i tuoi, ti do il budget per il loro stipendio. E già, i precari sono quasi tutti “locali” e questo provincializza le Università. Venire a Lecce, da Genova, mi ha arricchito moltissimo. E’ un’esperienza che dovrebbe essere obbligatoria per tutti quelli che aspirano a fare ricerca. Ovviamente con ritorni stipendiali adeguati. Tipo quelli che attirano all’estero i nostri migliori precari.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 2 ottobre 2017]