di Guglielmo Forges Davanzati
Il documento di programmazione economica 2017-2018, pensato come intervento per la ripresa della crescita economica in Italia, come da più parti rilevato, si fonda su alcuni assunti discutibili. Innanzitutto di metodo. Il punto qui in discussione è l’idea del Ministro Padoan di recuperare margini di flessibilità sulla spesa e il debito pubblico attraverso una revisione – che andrebbe fatta in sede europea – del c.d. Pil potenziale. Il Pil potenziale è il massimo livello di produzione che un’economia può generare date le risorse disponibili. Il ragionamento del Governo, per quanto esposto in modo estremamente tecnico, è semplice. Poiché l’Italia è impegnata a rispettare i vincoli di stabilità finanziaria contrattati in Europa, e poiché questi vincoli fanno riferimento a rapporti (deficit/Pil e debito pubblico/Pil), se si dimostra che il Pil potenziale è inferiore a quello stimato in sede europea, dovrebbe discenderne che la differenza fra Pil effettivo e Pil potenziale è anch’essa inferiore, implicando che un elevato rapporto deficit/Pil non è da imputare a un elevato deficit ma a un basso tasso di crescita. Il che consentirebbe di negoziare, in sede europea, di dimostrare che l’Italia ha fatto e sta facendo molti sforzi per ridurre il suo disavanzo, ovvero la differenza fra quanto lo Stato spende e quanto incassa. Al di là degli aspetti tecnici, e soprattutto lasciando da parte considerazioni relative all’irrazionalità dei vincoli europei, ciò che lascia perplessi è che ancora una volta il Governo italiano cerchi di ottenere maggiori risorse ricorrendo fondamentalmente a “trucchi contabili”. In tal senso, quella che fu chiamata la finanza creativa del Ministro Tremonti sembra essere, per i nostri Governi, un lascito permanente. Ma purtroppo dannoso, innanzitutto per la credibilità delle nostre classi dirigenti e per la credibilità delle previsioni.
Nel documento di programmazione, la crescita del Pil per il 2018 è prevista all’1,5%, maggiore di 0,3 punti percentuali rispetto al quadro tendenziale; la stessa dinamica si osserva per i consumi finali, rispettivamente 1,1% contro un tendenziale 0,8%; mentre i consumi delle famiglie mostrano una maggiore crescita, passando da un tendenziale 1% a un programmatico 1,4%. La maggiore differenza tra quadro programmatico e tendenziale è degli investimenti, con una crescita media rispetto al quadro tendenziale di quasi un punto percentuale. Gli investimenti (fissi lordi) dovrebbero crescere per il 2018 del 3,3%, contro un tendenziale 2,7%. Una differenza enorme. Anche per gli investimenti in costruzioni si prevede una crescita poco realistica. Se anche di ammette che il clima economico internazionale è migliorato, che questo induca o spinga le famiglie all’acquisto di nuove case è tutto da valutare, soprattutto considerando che abbiamo più che altro un problema di rigenerazione delle abitazioni, piuttosto che un problema di nuove abitazioni. Inoltre, la dinamica dei redditi da lavoro non giustifica né la crescita dei consumi, né la crescita degli investimenti, tanto più per nuove abitazioni
Nel merito, la manovra pone l’accento essenzialmente sulle misure di contrasto alla crescita della disoccupazione giovanile (soprattutto nel Mezzogiorno) e sugli interventi a favore della ripresa degli investimenti privati. Si tratta, per il primo caso, della reiterazione di misure di decontribuzione alle imprese, che hanno dato, fin qui, effetti irrisori sull’occupazione. Nel secondo caso, si introducono rilevanti de-fiscalizzazioni per l’ammodernamento degli impianti (la c.d. Industria 4.0). Quest’ultimo asse di intervento merita di essere discusso perché contiene oggettivamente qualcosa di nuovo e perché prova a incidere su uno dei tanti – e importanti – problemi dell’economia italiana, ovvero la caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro derivante dalla continua riduzione degli investimenti. Si calcola, a riguardo, che la durata media di ammodernamento degli impianti sia di circa 20 anni. Due i principali rischi.
1) Le imprese potrebbero reagire aumentando le importazioni di macchinari, non producendoli. E’ un rischio da prendere seriamente in considerazione, dal momento che le nostre imprese – soprattutto nel Mezzogiorno – sono imprese di piccole dimensioni, con scarsa propensione all’innovazione e con fondi interni estremamente ridotti. Se si mette in relazione questo dato con la continua riduzione degli investimenti pubblici per la ricerca (e alla sostanziale assenza di rapporti fra imprese e centri di ricerca), si può giungere al risultato per il quale i nuovi impianti saranno ben difficilmente prodotti in Italia.
2) Le poche imprese di medio-grandi dimensioni presenti nel nostro sistema produttivo sono prevalentemente localizzate al Nord. Un intervento di questo tipo, se non accompagnato da misure di rilancio dell’economia meridionale, potrebbe tradursi in un ulteriore aumento dei divari regionali.
Ciò di cui l’economia italiana avrebbe davvero bisogno, nel quadro degli “stupidi” parametri fissati dall’Unione Monetaria Europea (secondo la definizione che ne diede Romano Prodi), è semmai un aumento consistente degli investimenti pubblici, innanzitutto finalizzati alla messa in sicurezza del territorio o all’edilizia scolastica. Si tratta di misure che hanno effetti moltiplicativi di gran lunga superiori ai trasferimenti monetari e che farebbero crescere sia la domanda interna sia la produttività del lavoro. L’obiezione per la quale tutto ciò che è pubblico è fonte di sprechi e inefficienze dovrebbe essere respinta al mittente, giacché è un puro dogma.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 1 ottobre 2017]