di Antonio Errico
Quella mattina di fine settembre che in una classe di terza media il professore lesse “Autunno” di Vincenzo Cardarelli, i ragazzi non capirono il senso profondo dei versi, l’annodamento delle parole con l’esistenza. Forse non potevano capire: non era ancora età, dentro di loro, e fuori il tempo era un altro tempo. Fuori il tempo era ancora estate. Non l’avevano sentito l’autunno venire nel vento d’agosto, perché in agosto l’aria s’era cagliata; non l’avevano sentito venire nelle piogge di settembre torrenziali e piangenti, perché era da sei mesi che dal cielo non veniva giù una stilla e la terra si era fatta come pietra, e i padri contadini ruminavano bestemmie come se pronunciassero preghiere, e le madri bisbigliavano preghiere come se urlassero bestemmie.
Quella mattina i ragazzi non capirono. Ascoltavano distrattamente i versi e si lisciavano i peli radi spuntati sotto il naso simulando folti baffi d’uomo fatto. Non potevano sentire il brivido che percorreva la terra, e il sole smarrito di cui parlava Cardarelli era semplicemente una finzione che faceva sorridere perché invece il sole mordeva le guance di quelli che stavano ai banchi vicino alle finestre.
Ancora di meno capirono i versi che venivano dopo. Quelli che dicevano del miglior tempo della nostra vita che passa e declina con lentezza indicibile e lungamente ci dice addio.
Questo proprio non lo potevano capire: il tempo estenuato, così lento da non potersi dire, l’indugio spossante, il lungo, interminabile addio che scandisce ogni giorno, non lo potevano capire. Non lo potevano neppure immaginare. Per loro il tempo meridiano delle partite a pallone in mezzo alla strada passava con una rapidità dispettosa. Per loro non c’era nessun tempo, nessun attimo che potesse richiamare o far sospettare l’addio. Il loro tempo era soltanto un’attesa infinita, ansiosa, dolorosa a volte. Per uno di loro il tempo era assolutamente immobile e il dolore più forte. Aveva un fratello che dopo la leva era rimasto nell’esercito ed era diventato sergente. Il ragazzo guardava le foto del fratello in divisa e sognava di diventare sergente anche lui. Contava i giorni che gli mancavano ai diciott’anni per poter partire soldato e poi fermarsi e diventare sergente. Non c’è riuscito. Non l’hanno preso. Adesso fa l’ingegnere elettronico in Inghilterra. Quando ci si vede dice: io volevo diventare sergente.
Quella mattina di fine settembre, in una classe di terza media, l’autunno era niente più che un’astrazione letteraria. La fantasia di un poeta. La concretezza di questa stagione la capirono stagioni dopo. Riuscirono anche a legare quel verso che dice “il miglior tempo della nostra vita” con quello del “Passero solitario” di Leopardi: “pur festeggiando il lor tempo migliore”. Trovarono la rivelazione del senso di quei versi in altri versi di una canzone di Francesco Guccini che fanno così: L’autunno ti fa sonnolento,/ la luce del giorno è un momento/ che irrompe e veloce è svanita: /metafora lucida di quello che è la nostra vita”.
E’ cominciato l’autunno in questi giorni. Talvolta – spesso – diciamo che le stagioni ritornano. Non è vero. Nessuna stagione è mai com’è stata un’altra volta. Non lo sono le stagioni dell’anno né quelle dell’esistenza. A volte fa più freddo, a volte ne fa di meno; a volte i mandorli fioriscono prima, a volte fioriscono dopo. Ci sono inverni gelidi che si sente un fuoco dentro; ci sono estati torride che si ha il cuore ghiacciato. Le stagioni vengono una sola volta nella vita. Una sola volta e basta.
E’ cominciato l’autunno in questi giorni. Stagione di mezzo, di passaggio. L’autunno è come un ponte sospeso, oscillante tra le sponde compatte dell’estate e dell’inverno. Viene dall’esplosione di luce, dalla calura; va verso la luce pallida, il brivido della terra.
E’ un tempo di malinconia, d’incertezza: di quella malinconia sottile, di quell’incertezza pacata che s’insinuano ogni volta che si lascia un tempo e se ne aspetta un altro, di ogni volta che si ha consapevolezza del luogo da cui si viene ma non si sa nulla di quello dove si va, che si sa com’è stato il tempo che è passato ma non si può sapere nulla di quello che deve venire.
L’autunno è la stagione della soglia che separa la memoria dalla speranza, la veglia fino a notte fonda dal sonno a prima sera, il giorno lungo dal giorno breve, la luce che sfolgora fino a tardi dal buio che cala presto, all’improvviso, inaspettato. E’ la stagione di un sentimento dolceamaro, di un’inquietudine soporosa, di una impercettibile vibrazione del silenzio.
L’autunno è la stagione dell’ombra che accerchia le creature, si spande densa sulle cose, le avvolge, le nasconde. In estate tutto si rivela fastosamente; in inverno tutte si ritrae nella segretezza dei rifugi; in autunno bisogna cercare nell’ombra, scavare nell’ombra, oppure affidarsi alla percezione, all’intuizione, alla sensazione, alla sorpresa, allo stupore.
Non avvertirono stupore i ragazzi di terza media quella mattina di fine settembre che il professore gli lesse la poesia di Cardarelli. Non avvertirono neppure emozioni diverse da quelle consuete.
Hanno dovuto aspettare che venissero e passassero autunni, forse trenta, forse di più per comprendere che cosa volevano dire davvero quei versi. Lo hanno capito dopo, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, dopo aver vissuto primavere tristi e allegre, estati calde e fredde. Dopo aver vissuto e vivendo le esperienze di esistere sulla propria pelle.
Ma a volte a quei ragazzi, che in fondo fanno e rifanno sempre la terza media, accade di pensare, accade di sentire, che l’autunno è la stagione verso cui provano più affetto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 24 settembre 2017]