di Guglielmo Forges Davanzati
La lunga e complessa vicenda dell’ex ILVA può essere inquadrata facendo riferimento alla storia dell’industrializzazione pubblica nel Mezzogiorno e alle idee economiche che la produssero. All’insediamento di Taranto, nel 1960, si arrivò a partire dalla riflessione della gran parte degli economisti del periodo, riguardante la necessità di dare allo Stato – non solo in Italia – la guida politica del processo di sviluppo per orientare la crescita economica delle aree periferiche del capitalismo e del Mezzogiorno in particolare. Erano gli anni – a partire dal secondo dopoguerra – dell’affermazione delle teorie keynesiane nelle principali Università del mondo; teorie che, nel caso di molti economisti italiani del periodo, si fondevano con l’analisi marxista dei rapporti centro-periferie e che, nel caso del meridionalismo del periodo, poggiavano sull’eredità “produttivistica” di Francesco Saverio Nitti. Fu convinzione diffusa, da un lato, che un’economia di mercato produce e amplifica spontaneamente le divergenze regionali e, dall’altro, che l’industria è il motore della crescita economica. Si assistette a un fiorire di letteratura scientifica, in particolare, sulla categoria della dipendenza, in base alla quale lo sviluppo del capitalismo avviene mediante la divisione spaziale del lavoro fra aree centrali e aree periferiche. In una dinamica di disequilibrio, la specializzazione produttiva di queste ultime non è autonoma e il dualismo è un dato strutturale e non riferibile al solo caso italiano. Il dualismo attiene soprattutto ai diversi gradi dello sviluppo tecnologico. Uno dei centri di elaborazione, in quegli anni, più attivi fu il CEPAL – la commissione ONU per l’America latina istituita nel 1948 – e l’economia dello sviluppo si consolidò soprattutto in America latina.