di Antonio Errico
Alla fine di una conversazione con Paolo Di Paolo, uscita su “La Stampa” di alcuni giorni fa, Walter Siti dice che per la “letteratura” in senso forte, come la intendevamo una volta, corrono cattivi tempi: la comunicazione ha prevalso sulla parola che affiora dopo uno scavo e non ambisce a una immediata utilità. La letteratura non è fotogenica né telegenica, non puoi nemmeno ascoltarla per radio, la devi proprio leggere.
Diventa quasi inevitabile domandarsi quando sia finita “quella volta” in cui intendevamo la letteratura in modo diverso da come la intendiamo ora.
Forse si potrebbe dire che “quella volta” sia finita quando è finito il Novecento, e si potrebbe anche rintracciare la causa nell’insidia che il mercato ha fatto e fa nei confronti della letteratura. Ma forse questa è la causa che appare. Forse c’è stato qualcosa di più profondo, di radicale, che si potrebbe rintracciare nella trasformazione della mentalità determinata dal sopraggiungere e dal maturare di una stagione culturale nella quale la condizione prevalente consiste nell’effimero, nel superficiale.