di Antonio Lucio Giannone
Col terzo atto ci spostiamo al 1556, ed esattamente al giorno del Giovedì santo. Teresa ha quindi quarantuno anni e vive nel Convento dell’Incarnazione ad Avila. Ha ancora crisi profonde ed è afflitta da una sofferenza così strana che non si capisce se si tratti di amore o dolore. Una suora dice che quando canta sembra che emetta gridi di dolore. Continua a essere tormentata da una “noia infinita” (Corvaglia, 1931: 90), da una forma di nichilismo che Aldonzo definisce “accidia”.
Teresa. Così potessi fermare il cuore! (Come ascoltandosi dentro). Il sangue va, torpido… torna… Sempre un ritmo!… Non ci si accorge quasi di vivere. A tratti s’agita una speranza… (Animandosi e sbarrando gli occhi). Chi sa chi arriva? (Desolata). Nulla… E t’afflosci in questa delusione sonnolenta… M’annoio, Aldonzo, orribilmente m’annoio… Qualche filtro deve avermi avvelenato il sangue e m’intorpidisce i sensi dell’anima. Stinte le cose. Gelide!… M’annoio in cella, in piedi, a letto, con i libri, con i fiori, nel giardino, finanche in chiesa; anche ora vedi? anche ora che ti parlo, in questo mortorio di rimpianti inerti, debbo sostenere sforzi sovrumani per non sbadigliarti cento volte in viso questa mia noia infinita!
Aldonzo (con mortificazione rassegnata e con un amaro sorriso). Grazie! Sei molto generosa!
Teresa.Chi sa che male è questo ?
Aldonzo. Accidia (Corvaglia, 1931: 90).