di Ferdinando Boero
Confindustria fa una scoperta: la fuga dei giovani dal paese è una perdita equivalente a 14 miliardi di euro. Il calcolo si fa considerando quanto il paese spende per formare il “capitale umano” (tenere in piedi un sistema di istruzione costa) e quanto si perde non utilizzandolo, anzi, regalandolo a paesi che competono con i nostri sistemi produttivi.
Ora, questi giovani che scappano spesso vanno a lavorare per industrie straniere o, comunque, con strutture produttive, siano esse statali o private. Se ne vanno perché il sistema produttivo italiano non offre loro prospettive. E, ora, il sistema produttivo si lamenta. Come se la mancanza di prospettive di lavoro per i nostri giovani fosse indipendente dalle politiche di sviluppo messe in atto dai “sistemi produttivi”, cioè dagli industriali. Evidentemente siamo di fronte a una grave forma di schizofrenia, di sdoppiamento della personalità. I colpevoli di questa situazione se ne lamentano, come se la causa non fossero loro. Delocalizzare i sistemi produttivi dove la manodopera costa poco e non ci sono leggi per difendere l’ambiente e i lavoratori è stato considerato l’unico modo per guadagnare con l’imprenditoria. La politica governativa, in effetti, sta facendo di tutto per diminuire i vincoli ambientali (lo sblocca Italia, per esempio) e ha spinto in ogni modo la precarizzazione, associata ai bassi salari. Per diventare competitivi dobbiamo diventare come la Cina. I nostri giovani, ingrati, non ci stanno. Se ne vanno dove il loro valore viene retribuito in modo equo, dove è possibile costruirsi una vita. L’ambiente ne risente in modo drammatico, oramai non c’è bisogno di spiegare oltre. E ora chi ha fatto di tutto per creare questa situazione si accorge che non è bene per il paese. Ma guarda un po’! Se le industrie chiudono in Italia e si trasferiscono altrove, ci saranno sempre meno italiani che guadagnano e che spendono. Chi comprerà le merci prodotte altrove? Il miracolo italiano fu il risultato dell’industrializzazione e fu sostenuto dagli acquisti degli operai che compravano quel che la loro industria (e quelle degli altri colleghi) produceva. Se l’industria chiude, chi compra quel che produce? Questa politica è parallela al comportamento dei pescatori. Sanno perfettamente che se pescano in modo dissennato (prendendo i pesci quando sono ancora troppo piccoli, per esempio) poi la risorsa si esaurirà. Però dicono: se non lo faccio io lo fanno gli altri, e quindi tanto vale che lo faccia io. Poi qualche santo ci penserà. Questa visione miope del tornaconto immediato, incurante delle conseguenze, pervade il nostro modo di concepire il paese. Devastato l’ambiente, devastate le giovani generazioni. E, ora, i responsabili di tutto questo si preoccupano. Forse sperando di intercettare enormi investimenti per curare i danni che loro stessi hanno generato. L’anno prossimo saranno 50 anni dal ’68. I giovani di allora avevano un obiettivo: cambiare il mondo. I giovani di oggi non protestano, vanno dove quel mondo esiste, e non è in Italia!
[“Il Secolo XIX”, lunedì 18 settembre 2017]