Osservazioni a margine della divulgazione scientifica

di Paolo Maria Mariano

La produzione scientifica è spesso vista dai non addetti ai lavori come una fabbrica di certezze asettiche che emergono da qualche antro dove qualcuno parla un qualche linguaggio difficile. Il successo di tanta divulgazione della scienza indica forse non tanto la propensione al conoscere – se così fosse, gli indirizzi dati da chi cura l’organizzazione del sistema scolastico sarebbero probabilmente diversi e comunque le richieste degli utenti di quel sistema sarebbero altre – quanto proprio il desiderio di aggrapparsi a certezze anche nei casi in cui queste non abbiano aspetti consolatori; rincorrere, quindi, la sicurezza che ci sia qualcuno che sa. E per divulgazione della scienza intendo il racconto di una qualche disciplina scientifica a un immaginario lettore che non abbia della disciplina stessa informazioni almeno analoghe (e forse non basterebbe) a ciò che è istituzionalmente indicato nei programmi di un percorso universitario che possa essere ritenuto ragionevole da chi nella disciplina ha avuto un ruolo creativo.

D’altra parte, però, la divulgazione stessa è spesso deviante perché è tendenzialmente enfatica – la narrazione di chi fece l’impresa, una narrazione degli eroi – e difficilmente riesce a rendere evidente il cammino accidentato, arduo e incerto che percorre chi opera ogni giorno nel campo scientifico, come in ogni altro cammino che ha come fine il conoscere, e alla fine come tutta la vita. La divulgazione di teorie specifiche – e la mia è solo una valutazione di media – non riesce spesso a fornire una percezione esatta dei conflitti interiori ed esteriori, degli errori e dei ripensamenti, dei tentativi, dei tormenti, dell’ignavia, dell’impeto e dell’allegria, dei meandri concettuali che si percorrono per giungere alfine a un risultato che può essere la soluzione di un problema specifico, l’approfondimento di un concetto, l’analisi dei fondamenti di una teoria, la costruzione di una nuova o anche l’estensione di un corpus già esistente, perfino un risultato negativo, l’indicazione, cioè, di qualcosa che non si può fare. E d’altra parte, anche tra chi fa scienza la percezione di questi aspetti varia a seconda della cultura personale, della sensibilità, del valore. Non voglio con ciò affermare che la divulgazione sia inutile. Ha la sua importanza nello stimolare ulteriori approfondimenti e nel far percepire un’idea dello stato delle cose, quella percezione che può far inclinare la propensione a destinare risorse pubbliche e private allo sviluppo della ricerca, oltre il naturale – e per taluni perfino anomalo – rarissimo mecenatismo che spinge la ricerca animato da puri fini di conoscenza. Non si dovrebbe, però, dimenticare, che la divulgazione mostra tendenzialmente solo la superficie delle cose e talvolta la prospettiva che pone è deformata per suggerire messaggi altri che poco hanno a che fare con il soggetto di cui si discute – in quest’ultimo caso si tratta di cattiva divulgazione, invero. Inoltre, nonostante il tentativo zoppicante, fatto qualche riga fa, di darne una definizione, cosa sia o meno divulgazione non è sempre del tutto chiaro. La categorizzazione di uno scritto – sia da considerarsi divulgazione o meno – dipende dalla sensibilità e dalla cultura di chi legge come anche da quelle di chi scrive e immagina un lettore che talvolta finisce con l’essere se stesso, talaltra solo la proiezione della sfiducia che egli/ella ha nel suo potenziale pubblico, mancando di considerazione non tanto per il livello di conoscenza dell’auspicato lettore, immaginato quale indicatore di una moltitudine, il lettore medio, cioè, quanto per la potenzialità che il lettore stesso ha di elevare il proprio livello.

Per tutti questi motivi ogni qual volta che cerco rozzamente di scrivere qualcosa che non sia specificatamente tecnico, cioè dedicato a un pubblico di specialisti, non mi sforzo di divulgare alcuna teoria scientifica illustrando casi particolari d’immediata percezione, o ricorrendo a immagini figurate, stimolando l’immaginazione e perfino l’illusione. Semmai cerco di raccontare qualcosa di quanto succede intorno alla costruzione di una teoria scientifica, quali sono, cioè, quelle che mi paiono le cifre ricorrenti, e soprattutto cosa accomuna l’azione dello scienziato teorico creativo a quella del pittore, del poeta, del romanziere, del musicista, al di là della differenza delle modalità di espressione dei risultati e soprattutto della possibilità di percezione istintiva della “bellezza” eventuale dei risultati stessi – una questione complessa nella scienza anche per gli addetti ai lavori proprio per la varietà di caratteri, di propensioni e di peculiarità che caratterizza la categoria di chi nella scienza opera in maniera professionale.

Una posizione rispetto alla divulgazione più violenta della mia era quella di Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951) per come la riporta Maurice O’Connor Drury (1907 – 1976), annotando le sue conversazioni con il filosofo viennese che fu anche ingegnere per educazione. Wittgenstein osservava – sostiene Drury – che “questi libri che tentano di divulgare la scienza sono un abominio. Assecondano il desiderio della gente di essere solleticata dalle meraviglie della scienza tralasciando l’enorme fatica che implica la comprensione del suo oggetto. Un buon libro, per esempio, è invece The Chemical History of a Candle di Faraday. Faraday prende un fenomeno semplice come la combustione di una candela e fa vedere di che complicato processo si tratti. Dimostra continuamente ciò che sta dicendo con esperimenti dettagliati. Tra gli scienziati che hanno raggiunto la mezza età  c’è una certa tendenza oggi ad annoiarsi del proprio lavoro effettivo e a lanciarsi in assurde speculazioni popolari semifilosofiche. Eddington ne è un esempio, come anche l’interesse di Broad per la ricerca dei fenomeni psichici. Broad pretende che il suo interesse sia puramente scientifico, ma è ovvio che questo genere di speculazioni e di esperimenti lo eccita terribilmente.” Estraggo queste frasi da L. Wittgenstein, Conversazioni e ricordi, Neri Pozza, 2005, pp. 160-161, e sono le uniche che discutono l’argomento. Il libro, invece, è una raccolta di scritti di chi frequentò in amicizia Wittgenstein quand’era professore a Cambridge, dove alfine la cattedra gli fu data perché, come dichiarò con onestà intellettuale un membro della commissione che gli era istintivamente “avverso” nella vita di tutti i giorni nell’ateneo, rifiutare la cattedra di filosofia a Wittgenstein era come rifiutare quella di fisica a Einstein. Al di là delle vicende minute – non poche perché le interazioni tra Wittgenstein e l’insegnamento e tra Wittgenstein e gli altri non furono mai propriamente lineari – l’aspetto che rende il libro meritevole di lettura attenta è che da quegli scritti non inutilmente apologetici, anzi non privi di critiche ma sempre permeati di profondo rispetto, emerge con chiarezza cosa significhi vivere accanto a un genio senza provare alcuna invidia, semmai, talvolta, stupore.

 

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