di Antonio Mele / Melanton
La mia precedente noterella sulle “parole come pietre” non si esauriva del tutto lì. E col vostro permesso, desidero necessariamente completarla.
Da cittadino comune, leggendo o ascoltando le dichiarazioni dei nostri amministratori pubblici, mi chiedo più volte: è mai possibile che, ancora oggi, il linguaggio politichese e burocratese ossia il lessico istituzionale, che dovrebbe essere lo strumento rapido, limpido e inequivocabile di comunicazione diretta con il popolo tutto, diventi sempre più incomprensibile e farraginoso?
È possibile che i capi di governo, e i ministri, e i portavoce, i portaborse, i giornalisti, e magari anche qualche parruccone vicino di casa che vuole fare il saputo, si trovino concordi nel proporci notizie con vocaboli misteriosi da Sibilla Cumana, e con una fraseologia così contorta e cervellotica da apparire a volte perfino intimidatoria?
Ma che cavolo è, precisamente, il jobs act (o job acts, job act, jobs acts, visto che, fra l’altro, lo scrivono ora in un modo ora nell’altro)? Quanti cittadini italiani ne conoscono esattamente il significato?… E quell’altra corbelleria linguistica della spending review, che da un bel po’ di tempo imperversa su tutti i giornali e telegiornali? Che ne pensa, a tal proposito, la famosa “massaia di Voghera”, campione ideale dei cittadini del nostro «bel paese là dove ‘l sì suona»?… Forse che se la spending review la chiamassimo revisione di spesa, in bell’italiano, faremmo la figura di provinciali o peracottari?
Dice: il mondo ormai parla in inglese, e anche noi politici dobbiamo usare gli ‘anglicismi’ per farci capire meglio. Meglio da chi, scusi? Capiamoci intanto fra noi. O no?