di Paolo Vincenti
Si è alzato negli scorsi giorni un gran polverone sulle esibizioni di Annalisa in intimo sexy e sulla parità di genere. Specie in occasione dell’8 marzo, l’ostentazione della cantante ai Billboard Women in Music a Los Angeles, dove ha vinto il premio Global Force Award, ha scatenato il furor belli di molti. Potrei dire semplicisticamente che molte delle polemiche siano state innescate da una questione di “outfit” e quindi di estetica. Molti ricorderanno che qualche anno fa vi fu una fitta polemica sul burkini, quando il Sindaco di Nizza aveva emesso un provvedimento che vietava alle donne islamiche di indossare il burka sulle spiagge della città. Alcuni davano al politico del fascista e dello xenofobo, altri lo giudicavano un eroe. Vi erano stati diversi attentati da parte dell’Isis. In spiaggia, le islamiche, si diceva, devono spogliarsi come le occidentali, non è ammesso che in nome della religione vadano così “indecentemente” coperte. Ragioni di sicurezza pubblica e questioni politiche si intrecciavano con fattori culturali, in un guazzabuglio fra l’antropologico, l’etico, il sociologico. Giustamente (a mio avviso) Alessandro Perissinotto, in un articolo pubblicato su “Il Messaggero”, intitolato Il divieto di burkini non riduce l’asservimento delle donne, scriveva: “La verità è che gli uomini di potere continuano a decidere quanti centimetri di stoffa deve avere addosso una donna per essere decente… il divieto di indossare il burkini in quanto intervento esterno ed autoritario sulla donna, non serve a ridurne l’asservimento e la espone ad un asservimento di segno opposto. Per smontare l’ideologia di asservimento non si possono imporre livelli minimi di nudità ma bisogna educare uomini e donne alla libertà di scelta, anche all’interno di un dialogo con l’islam”.