di Rosario Coluccia
Molte lettere che ricevo dai lettori di questa rubrica toccano, con sfumature diverse, lo stesso argomento. Alcuni sono colpiti (meglio: infastiditi) dall’uso un po’ spericolato della lingua italiana che a volte si nota perfino in scrittori eccellenti. Ha ragione il professor Giovanni Bernardini di Monteroni quando si meraviglia di un’espressione che legge nell’ultimo libro di Umberto Eco, uno dei più grandi intellettuali italiani degli ultimi decenni, senza ombra di dubbio l’autore contemporaneo più conosciuto all’estero, autore di saggi scientifici e di romanzi tradotti in molte lingue e venduti in moltissime copie (primo tra tutti Il nome della rosa). In Pape Satàn aleppe, a p. 318, si trova due volte «bella calligrafia». L’attento lettore osserva che il termine calligrafia si compone di due segmenti di origine greca, il primo dei quali contiene il senso di ‘bellezza’. E quindi premettere alla parola calligrafia l’aggettivo bella «non dico sia errato, ma pleonastico. O la mia è pedanteria professorale?» conclude il professore.
No, non è pedanteria. Era della stessa opinione il più importante lessicografo dell’Ottocento, Niccolò Tommaseo, autore di un fondamentale Dizionario della lingua italiana, pubblicato nel 1865, poi ristampato presso Rizzoli nel 1977, oggi disponibile anche in CD-Rom. Nel suo Dizionario Tommaseo scrive: «non è proprio: avere una bella calligrafia. Meglio: una bella mano di scritto, una bella scrittura. In altre parti d’Italia vive avere una bella lettera». Oggi nessuno direbbe più una bella mano di scritto o una bella lettera, usiamo solo una bella scrittura o, semplicemente, una bella grafia. Così va bene.
Le critiche più frequenti dei miei lettori si indirizzano su bersagli diversi: riguardano inflessioni, parole e forme locali o regionali che si ascoltano nella televisione pubblica e nelle private. Vanno combattute? Si è lamentato della eccessiva presenza televisiva dell’italiano regionale romanesco un giornalista importante come Aldo Cazzullo, sul «Corriere della Sera»: «Film, fiction, trasmissioni televisive (in particolare quelle della tv pubblica) sono quasi sempre “pensate” a Roma, con mentalità, accenti, linguaggi romaneschi […] Il punto è che gli italiani del Nord, filtrati e raccontati dai romani, tendono a diventare caricature: il piemontese imbranato, il lombardo “bauscia” – lavoro guadagno pago pretendo -, il veneto “mona”. Oppure l’attore piemontese, lombardo, veneto viene inserito nel contesto capitolino in quanto caso umano (ad esempio il bravo Battiston di Perfetti sconosciuti). Guido Chiesa, regista torinese, quando ha girato Il partigiano Johnny tratto da Beppe Fenoglio ha affidato il ruolo del Comandante Nord a Claudio Amendola, che arringava i partigiani delle Langhe in romanesco. Persino la difesa della milanesissima Mediaset dal referendum del 1995 fu affidata a uno spot in romanesco: “Teribbile!”. Sono episodi minori, e pure divertenti. Se ne potrebbero raccontare molti che confermano la tendenza e altrettanti che la contraddicono». Ci vorrebbe una maggior rappresentanza delle culture e delle identità del Nord, «il cinema e la tv sapevano parlare meglio al Paese quando davano più spazio a talenti di tutto il Paese».
A lui ha replicato, tra gli altri, Pietro Piovani sul «Messaggero»: «A Milano ci si lamenta della “romanizzazione culturale” del Paese. […] Il fatto è che agli italiani del Nord ha sempre dato molto fastidio ascoltare l’inflessione romana, e possiamo capirlo perché certe cadenze sforzate, sguaiate a volte risultano irritanti alle orecchie degli stessi romani. Fortunatamente però non succede il contrario, nel senso che i romani sono in genere ben disposti verso il milanese. E questo anche se il milanese ci sembra in espansione nei programmi tv e ancora di più nelle pubblicità. In un famoso spot una bambina diceva “già fatto” con una effe sola e a tutti sembrò simpatica: nessuno protestò per quel tratto fonetico tipico dei dialetti settentrionali (in italiano dopo “già” è obbligatorio il raddoppiamento sintattico). L’ammirazione che abbiamo per i padani è tale che ormai anche a Roma ci mettiamo a parlare in milanese, chiamando il pranzo “colazione” e il cocomero “anguria”. Nessuno denuncia mai la milanesizzazione culturale del Paese, e tutto sommato è meglio così».
Roma e Milano, siamo alle solite. In parte è comprensibile, si tratta dell’asse più importante del paese, la disputa per la supremazia tra le due città è una costante e coinvolge tutti gli ambiti del vivere associato, dalla politica al calcio, dalla vivibilità urbana alla cultura. Per quanto riguarda quello di cui stiamo parlando, l’italiano parlato in televisione e al cinema, non sono ambientate né a Milano né a Roma alcune serie televisive di grande successo: «Montalbano» in Sicilia; «Don Matteo» in Umbria; «I bastardi di Pizzofalcone» e «Gomorra» in Campania…
Non va male neanche per noi, la nostra terra è spesso rappresentata sugli schermi. Alcuni anni fa un mio collega torinese fu invogliato a visitare il Salento dalla serie televisiva «Il giudice Mastrangelo», protagonista Diego Abatantuono: un giudice (in realtà procuratore) dopo anni di attività al Nord torna nella sua terra, il Salento, dove ritrova gli ambienti e gli amici lasciati anni prima. L’ambientazione era un po’ oleografica, i luoghi del Salento sembravano in certi momenti cartoline paesaggistiche, l’edificio della Procura (il “Palazzo del Principe” di Muro Leccese) era decisamente più bello di molte sedi giudiziarie reali. Comunque la promozione territoriale implicita ha funzionato, a dispetto di una singolare particolarità linguistica. Curiosamente, a parte la segretaria della procura che parlava con accento leccese, gli altri personaggi si esprimevano con accenti delle zone più a nord della Puglia: tarantino, barese, foggiano. Forse considerati più riconoscibili dal punto di vista mediatico o più accettabili per il pubblico nazionale, abituato alla varietà barese (o canosina) di Lino Banfi, già prima dell’esplosione successiva di Checco Zalone, protagonista di film campioni d’incasso negli anni più recenti, da Cado dalle nubi (2009) fino a Quo vado? (2016). Forse per la stessa ragione (una supposta maggiore riconoscibilità della varietà pugliese rispetto a quella salentina) ricorre al camuffamento linguistico Sergio Rubini, che fa parlare con accento apulo-barese i personaggi salentini dei suoi film. Per fortuna non tutti si comportano allo stesso modo. Per rappresentare le realtà socioculturali e antropologiche del territorio registi come Edoardo Winspeare (a lui va il merito di aver cominciato), Ferzan Özpetek (turco naturalizzato italiano) e altri si avvalgono opportunamente delle varietà locali, l’italiano regionale salentino e a volte perfino il crudo dialetto (ricorrendo ai sottotitoli, se necessario, affinché allo spettatore non locale sia assicurata la comprensione della vicenda). Una parte del successo nell’universo mediatico si deve senza dubbio al ruolo che svolge «Apulia Film Commission» con l’avallo della Regione Puglia, per l’attuazione delle politiche di sostegno al settore dell’audiovisivo.
Nel complesso, si può essere soddisfatti di quanto scorre sugli schermi televisivi e cinematografici. Anche con questi mezzi la nostra regione si apre al mondo, in parte si spiega così il successo turistico del Salento negli ultimi anni. Ma le belle medaglie hanno spesso risvolti negativi. Ora dobbiamo imparare a gestire il flusso turistico senza snaturare tradizione, cultura e ambiente, senza rendere invivibili le nostre città, senza criminalità e microcriminalità diffuse. A luglio e ad agosto alcune località del Salento sono bolge infrequentabili. Non c’è tempo da perdere, non si può più aspettare. L’ho scritto altre volte: la politica seria – se c’è – batta un colpo, si dia da fare. Anche a rischio di scontentare qualcuno.
Torniamo ai temi linguistici che sono il centro di queste pagine. Cinema e televisione rappresentano la vivacità dell’Italia policentrica, nella quale convivono pronunce diverse. L’italiano comune si è diffuso nel nostro paese su una marcata frammentazione dialettale sottostante, i parlanti ne risentono e non seguono regole uniformi. Non esiste un solo italiano, la lingua varia non solo attraverso il tempo ma anche attraverso lo spazio regionale, a seconda delle situazioni e del mezzo utilizzato. Secondo molti, l’italiano che promana da televisione e cinema (nelle diverse manifestazioni) è poco riguardoso delle regole, eccessivamente aperto alle libertà del parlato, troppo incline ad accogliere intonazioni e parole regionali. Sono questioni difficili da decidere con un taglio netto. L’italiano ha una storia antica ma è lingua vitale e in perenne movimento, oscillante fra innovazione e tradizione, risente di spinte diverse. In un bel libro sull’italiano regionale uscito presso «il Mulino», Nicola De Blasi conclude che esiste una «consolidata tolleranza vero le pronunce regionali», anche se il consenso non è generale.
Non esistono ricette semplici. Impariamo a usare correttamente l’italiano, nello scritto è fondamentale. Concediamoci, quando capita, un po’ di tolleranza nel parlato. L’importante è essere consapevoli di come parliamo, saper usare, quando occorre, l’italiano corretto e senza strafalcioni. Qualche tolleranza nella pronuncia è consentita, in fine dei conti ci limitiamo a dichiarare, senza vergognarci, da dove veniamo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 3 settembre 2017]