di Antonio Errico
Corre un tempo che assai facilmente e rapidamente innalza altari sfarzosi al nuovo che avanza, qualche volta anche agli avanzi del nuovo, senza verificare, senza valutare se il nuovo che avanza abbia veramente valenza e sostanza. Accade in ogni contesto, in ogni circostanza, senza alcuna esclusione, senza differenza. Allo stesso tempo, altrettanto facilmente e rapidamente, si dismette il vecchio, lo si destina all’archivio ammuffito degli atti che non servono, quando non lo si consegna al macero direttamente. Indipendentemente dal tempo che è durato, da quello cui è servito.
Si sa che il nuovo è lo strumento dell’evoluzione, dello sviluppo, del progresso, ma a condizione che sia nuovo davvero, che in qualche modo costituisca un miglioramento, per esempio della qualità della vita, della formazione, della cultura, del lavoro, del pensiero, che in qualche modo conferisca senso alla relazione tra le persone, che renda irripetibile la storia, che faccia crescere un Paese, sviluppi la civiltà.
Se non è così, il nuovo che avanza, dietro le fattezze spesso rilucenti, nasconde l’imbroglio meschino, la patacca, il coccio di vetro che seduce la gazza.