Il libro impossibile di Marco Polo

di Antonio Montefusco


Ritratto di Marco Polo del XVI secolo.

Il 9 gennaio di 700 anni fa Marco Polo dettava le sue volontà testamentarie al prete-notaio Giovanni Giustinian. Marco lasciava tutto alla moglie Donata Badoer, sposata intorno al 1300, e alle tre figlie Fantina, Bellela e Moreta (aveva anche un’altra figlia, Agnesina, probabilmente nata al di fuori del matrimonio). Nel testamento, Marco si preoccupava di liberare Pietro, uno schiavo di origine tartara. In un testo tutto sommato smilzo, che dà quasi l’impressione di essere steso sotto l’urgenza delle cattive condizioni di salute del dettatore (che infatti morì in quei giorni), questo dettaglio è uno sprazzo di memoria. Pietro emerge dal passato di Marco, testatore ricco e stabile in laguna, ma poco più di cinquant’anni prima eroe quasi epico di un viaggio incredibile: nel 1271, appena diciassettenne, si era imbarcato da Venezia con il padre Niccolò e lo zio Matteo; passati dalla Terra Santa, proseguirono dall’Anatolia orientale all’Armenia verso l’altopiano iranico per raggiungere la lontanissima Cina. Qui Marco entrò in una corte molto particolare, dominata dalla figura affascinante del khan Kublai. Nipote di Gengiz Khan, egli dominava su un impero che andava dalla Siberia all’intera Cina. I tre Polo rimasero nel paese molti anni; Marco si impratichì velocemente delle lingue parlate nel territorio e svolse importanti missioni in luoghi lontani, fino all’India. Solo nel 1295, dopo 25 anni, la compagnia riguadagnò Venezia.

            Non fu un viaggio come gli altri, seppure non fu il primo. Missionari – soprattutto francescani e domenicani – si erano spinti fino ai territori mongoli, talvolta in compagnia di mercanti. Mondi diversi che si avvicinavano perché la Terra Santa cadeva sempre di più sotto il controllo musulmano mamelucco: le vie delle merci, e del Signore, avevano bisogno di sbocchi nuovi, e il dominio mongolo si caratterizzava per un dinamismo commerciale estremo, unito a una varietà di culti che conviveva in maniera inusuale rispetto all’Europa lacerata dai conflitti. Una “frontiera” attraente, che cominciava a essere anche raccontata. Ma mai con la ricchezza di dettagli con cui Marco la raccontò al suo compagno di cella, il pisano Rustichello, nelle carceri di Genova alla fine del Duecento. Il viaggiatore-ambasciatore apriva la fontana dei ricordi a un ghost-writer che fino ad allora aveva scritto romanzi cavallereschi di successo. Ne uscì un libro straordinario, eppure inclassificabile. Il suo titolo, Devisement dou monde, significa “descrizione del mondo”, e già ne esplicita lo scopo: riunire e raccontare tutte le conoscenze accumulate nell’esperienza del viaggio. A chi? A un pubblico nuovo, larghissimo: non più i preti-missionari, a cui si indirizzavano tutti gli scritti di viaggio precedenti in latino, ma ai laici tutti, dai potenti ai semplici.

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