di Antonio Errico
Non esiste creatura che viva con la disperazione di ricordare tutto. Soltanto gli dei potrebbero essere lacerati da una disperazione così, ma gli dei non esistono. Chi crede dice che esista un Dio, che è colui che ha memoria di tutto.
Gli uomini dimenticano. Hanno bisogno di dimenticare, perché i ricordi che rimangono abbiano la possibilità di radicarsi, di diventare essenziali, di farsi struttura sulla quale realizzare la condizione del presente, immaginare occasioni di futuro.
Allora gli uomini dimenticano. E’ un processo naturale: un ricordo lascia il posto ad un altro, quello più consistente a quello che ha una consistenza minore. Un volto, una voce, un luogo, un’esperienza, una circostanza che costituiscono una maglia della rete della memoria, ad un certo punto si dissolve o comunque si indebolisce, si sfilaccia, lasciando il posto ad una nuova maglia di memoria, ad un altro volto, un’altra voce, altri luoghi, esperienze, circostanze. Alla dissolvenza di un ricordo corrisponde l’intensità di un altro, ad un distanziamento un’approssimazione. Ricordare e dimenticare appartengono alla storicità dell’uomo e costituiscono, anzi, una parte della sua storia e della sua cultura, dice Gadamer in quel classico che è “Verità e metodo”.
Probabilmente chi studia la memoria è in grado di dire se siamo noi che volontariamente o involontariamente ci allontaniamo dai ricordi o se siano essi che si allontanano da noi. Forse chi studia il funzionamento della memoria è in grado di dire in che modo e in che misura noi si resti fedeli ai ricordi e quanto i ricordi rimangano fedeli a noi.
Potrebbe anche essere che talune volte noi perpetriamo un tradimento nei confronti dei ricordi oppure che siano essi a tradirci. Forse istintivamente ci orientiamo verso la seconda ipotesi, siamo più disposti a pensare che siano i ricordi ad essere infedeli. Sarà anche per questo dubbio che si dice “se la memoria non m’inganna”, “se il ricordo non mi tradisce”.
Ma probabilmente ha ragione uno dei personaggi di un racconto di Ottavio Cecchi, che sta in un piccolo libro che s’intitola “L’ornitologo”, quando dice: “La memoria inganna lei, inganna me, inganna tutti. Si tratta di capire quale e quanto sia lo spazio, la differenza, tra i fatti reali e le immagini che di quei fatti conserviamo”.
Nella memoria, tutto si trasforma. Le pesantezze della realtà possono diventare come nuvole esili e leggere e le leggerezze possono tramutarsi in un macigno; una persona che non avremmo mai sospettato di poter dimenticare, ad un certo punto, senza che ci si renda conto, scompare dall’orizzonte di memoria; accadimenti che sembrano incidere sui destini si inabissano in profondità che non possiamo esplorare. Quello che era nitido diventa opaco; le cose che avevano contorni precisi, forme definite, si scontornano, si sformano, si fanno fluttuanti, evanescenti, diradate.
Gli uomini dimenticano, dunque. Forse quello che ricordano è molto meno di quello che dimenticano. Ma gli uomini non vorrebbero dimenticare. Vorrebbero poter ricordare tutto. Il loro sogno più antico è quello di essere come gli dei, che, se esistessero, ricorderebbero tutto. Oppure, almeno, vorrebbero essere come il personaggio di una delle “Finzioni” di Jorge Luis Borges.
Ireneo Funes sapeva la forma delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina di un libro che aveva visto una volta sola. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una lunga veglia funebre. Forse riusciva a vedere tutte le stelle che c’erano nel cielo. Riusciva a ricordare non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Diceva di avere più ricordi, lui, da solo, di tutti gli uomini di tutti i tempi messi insieme. Diceva che la sua memoria era come un deposito di rifiuti. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo vertiginoso e multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso, sovraccarico di immagini, di meticolosi dettagli concreti eppure intangibili.
Si potrebbe pensare che il motivo per il quale gli uomini hanno inventato prima la letteratura, la cui sostanza si fonda sulla memoria, e poi la Rete sia quello di poter recuperare quando vogliono tutti i ricordi che vogliono, per potersi pensare come dei. Agli uomini non importa che i ricordi abbiano un ordine, una relazione con il tempo, una gerarchia fondata sulla significatività. A loro importa semplicemente poterli avere tutti a disposizione, anche se in modo amorfo, indistinto; vogliono possedere un accumulo di ricordi anche se manca una selezione, una mediazione.
Non potendo ricordare tutto, dunque, hanno inventato qualcosa che riesce o potrebbe riuscire a farlo. Così i ricordi si impigliano nella Rete, coesistono indiscriminatamente, separatamente, frammentariamente, e compaiono nel preciso istante in cui si digita un nome, una data, un luogo. La Rete ricorda ogni cosa. Non cancella nulla. Non dimentica nulla.
Così la natura dell’umano retrocede; scompare o comunque si riduce quella dimensione di soggettività, di intimità, di irripetibilità della memoria che si realizza quasi esclusivamente attraverso la rielaborazione del ricordo. Forse scompare anche il senso autentico, sostanziale, della memoria che talvolta si può ritrovare soltanto nel contrasto con l’oblio.
Allora, forse, gli uomini dovrebbero porsi il problema della qualità della memoria; non potendo essere come gli dei che ricordano tutto, forse dovrebbero domandarsi se vale di più ricordare tutto oppure ricordare le cose e le storie verso cui proviamo un sentimento e quindi scegliere fra la quantità e la qualità dei ricordi. Ci sono ricordi che non cambiano nulla nell’ esistenza di ciascuno. Ce ne sono altri senza i quali la nostra esistenza sarebbe completamente diversa da quella che è. Poi ci sono ricordi che cambiano il corso della Storia e ce ne sono altri con i quali o senza i quali la Storia va per la sua strada, senza differenza. Si potrebbe dire che possono convivere tutti, senza alcuna esclusione. Certo, possono. Però c’è il rischio che nella massa informe si faccia confusione.
Se gli uomini fossero dei potrebbero anche farsi carico della disperazione di ricordare tutto. Ma non lo sono, e poi gli dei non esistono.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 27 agosto 2017]