di Antonio Errico
I classici non servono a niente. Sono storie ormai vecchie, dicono un tempo finito, raccontano esistenze improbabili, configurano destini impossibili, quando li leggi sei costretto a riflettere, a guardare un personaggio negli occhi, a fare i conti con l’imprevisto. I classici non servono a niente. L’Odissea, il Don Chisciotte, l’Amleto, le Confessioni di Agostino, la Commedia di Dante, un canto di Leopardi, due versi di Catullo, un racconto di Kafka, una poesia di Eliot, un romanzo di Thomas Mann, una pagina di Pinocchio, una di Proust, l’Ecclesiaste, Tolstoj, Dostoevskij, Beckett, Buzzati, Hemingway, non servono a niente. Sparano domande come pietre di fionda, non danno mai nessuna risposta, meno che mai danno certezze, qualche volta producono angoscia, qualche volta malinconia, insinuano dubbi continuamente, costringono a fare ragionamenti difficoltosi, aggrovigliati, complessi. Non servono a niente. Noi vogliamo discorsi lineari. Possibilmente superficiali. Che non richiedano troppo pensiero. Che non complichino ulteriormente la vita. Perché quello che pensiamo ci basta ed avanza, perché abbiamo tanto da fare e andiamo di fretta. Non vogliamo parole che riescano a dirci chi siamo e che cosa pensiamo, veramente, di che cosa abbiamo paura o desiderio, veramente. Stiamo bene sotto la grande, immensa galleria della luminaria che attraversiamo continuamente e non vogliamo conoscere il sottosuolo, non vogliamo neppure il buio che ci permette di vedere le stelle. Ci piace la luce innaturale. Non importa se poi quando la galleria si spegne, ci capita di sentirci così soli da non accorgerci che siamo con noi stessi. I classici non servono a niente. Anzi, la letteratura in genere non serve più a niente, di questi tempi. Ad eccezione della letteratura che ci distrae, ci spensiera, ci diverte.
Così si dice, a volte. Però, a volte, qualcuno dissente.