di Antonio Errico
Antonio Debenedetti, poeta, narratore, giornalista, critico letterario, figlio di Giacomo, l’autore, fra l’altro, di quel saggio inevitabile che è Il romanzo del Novecento, nelle ultime pagine di un libro intervista che ha per titolo Un piccolo grande Novecento, pubblicato da Manni quasi vent’anni fa, diceva che se gli accade di guardare indietro, se pensa che da bambino ha giocato con la ghiaia nel giardino di Benedetto Croce a Sorrento, di essere stato sulle ginocchia di Umberto Saba, di aver avuto come maestro elementare Giorgio Caproni, gli pare di aver attraversato due o tre epoche della storia. Si sente come se fosse sbarcato nel nuovo millennio da un’altra era, come un alieno.
Ci sono uomini che non vogliono essere in corsa, che si sentono estranei a qualsiasi competizione, perché hanno assistito a corse di campioni impareggiabili. Non sono in competizione nemmeno con se stessi. Forse perché provengono da altre storie, perché hanno fatto altre esperienze, perché hanno maturato il senso della differenza fra il l’essenziale e il superfluo, la sostanza e l’apparenza. O semplicemente perché nemmeno ci pensano.
Allora, per questi uomini, diventa importante, necessario, soltanto esserci: nei confronti di se stessi e soprattutto degli altri; forse anche nei confronti delle ombre della storia che hanno volti familiari, alle quali bisogna dare soddisfazione, forse, ma certamente, in qualche modo, bisogna rendere conto.