di Simone Giorgino
«Che cosa resta dell’infanzia in un’altra età della vita? Che cosa resta del suo stupore, dei suoi incantamenti?». A partire da queste suggestive domande, Antonio Prete, professore emerito dell’Università di Siena, comparatista di fama internazionale oltreché poeta e traduttore fra i più alti e autorevoli degli anni nostri, intraprende il suo viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, nel «paesaggio lontano» della sua infanzia vissuta a Copertino, nel leccese, raccontato nell’intenso Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri, 2023).
La sua è una prosa raffinata, concentratissima, che corteggia la poesia; e d’altronde il tema sviluppato nel libro è da sempre caro ai poeti, i quali, come scrive l’autore, «sanno bene quanto la lingua del loro dire deve alla luce, e alle ombre, che appartengono» ai primi anni della loro esperienza del mondo.
Prete ci ricorda che l’infanzia, nell’etimo, è un tempo anteriore alle parole, «l’al di qua della lingua. L’alba del dire». È proprio in quel periodo che si modella la nostra personalità: attraverso esperienze, incontri, sensazioni – corpi, sapori, colori, odori, suoni (fra i quali la cadenzata musicalità del dialetto, la lingua madre contrapposta all’italiano, lingua «estranea» dell’ufficialità) – che segneranno per sempre il nostro cammino. Perché il tempo dell’infanzia è un tempo che dura, che «continua a respirare nel nostro stesso respiro».
L’Album di Prete propone anche una densa riflessione sulla memoria, sulla sua natura e sui meccanismi che la governano, sviluppata non solo a livello teorico ma soprattutto testimoniata in prima persona, o meglio con un’esibita ‘incertezza’ pronominale che riflette il carattere sfuggente, anfibolico insito nell’operazione del rammemorare: «Perché dire io raccontando della mia infanzia? – si chiede a un certo punto l’autore – Più giusto sarebbe usare il tu: troppo lontano è quell’io da questo momento in cui scrivo, troppo diverso da quello che ora posso intendere con questo pronome».