di Antonio Errico
Diceva che, in fondo, dalla vita, aveva anche imparato qualcosa. Per esempio: che il sabato è meglio della domenica, che chiunque ha qualcosa da raccontare, che non c’è da preoccuparsi se a quarant’anni anni non sai ancora che fare della tua vita, se hai ancora una gran voglia di giocare. Aveva imparato che non c’è cosa più inebriante che impuntarti sulla tua scelta, e poi sbagliare, che la voce di Frank Sinatra è uno dei motivi per stare al mondo, e la Heineken è l’altro, che con il passare degli anni i tuoi errori e i tuoi rimpianti impari ad amarli, che se ripeti una parola tante volte, all’improvviso perde di significato.
Diceva di aver imparato che la nostalgia ha lo stesso sapore della cioccolata bollente, che la tua camicia preferita attira il sugo in modo micidiale, che non c’è cosa più bella che svegliarsi una mattina senza sapere che ore sono, senza riconoscere la stanza e soprattutto senza ricordare come ci sei arrivato.
Ma soprattutto aveva imparato che i giorni veramente importanti nella vita di una persona sono cinque o sei in tutto. Tutti gli altri fanno solo volume.
Trent’anni fa, il 31 ottobre del Novantatré, moriva Federico Fellini.
Chissà in che modo avrebbe guardato il mondo se lo avesse conosciuto com’è adesso, con che colori lo avrebbe rappresentato, con che forme, oppure chissà di che colori e di che forme lo avrebbe immaginato se non fosse stato in grado di vederlo, o di che colori e di che forme lo avrebbe sognato se avesse avuto profondi e lunghi sonni, o dormiveglia affollati di figure indistinte e vagolanti.