di Antonio Errico
Nella carrozza di un treno, lo sguardo divaga su due paesaggi: quello che si vede dal finestrino, con gli alberi che compaiono e scompaiono come un’illusione, con le onde dell’Adriatico che si distendono cercando la direzione che porta all’infinito, e quello dentro, delle creature che viaggiano, e scendono e salgono alle fermate, come in una poesia di Giorgio Caproni.
Fino a qualche anno fa – venti, forse, uno meno, uno più- , nella carrozza di un treno si saliva da sconosciuti ma si restava in quella condizione soltanto per un quarto d’ora. Dopo quei minuti si diventava compagno d’avventura. Lì, in quella carrozza, si concretizzava la metafora della conversazione collettiva: storie che cominciavano, s’intrecciavano, si interrompevano ad una fermata, ricominciavano con altri narratori che tessevano le maglie dei loro racconti nella rete di quelli che si stavano svolgendo. Adesso la carrozza di un treno è la metafora dell’essere soli con altri che sono soli. Non c’è parola; non ci sono storie; non c’è conversazione. Si è lontani da tutto quello che c’è intorno; non si ha nessuno accanto; non scorre nessun paesaggio dal finestrino. Una nuvola di silenzio si stende sul viaggio. La sola voce che arriva è quella che dà il benvenuto a bordo e dice dov’è diretto il treno e quali sono le fermate intermedie. Occhi affondati nei tablet, nei cellulari, scrutano orizzonti lontani, lontanissimi, ma conchiusi in un display. Esistenze protette dagli auricolari, rifugiate in un mutismo irreale, con un oggetto fra le mani con il quale comunicano forse con il mondo intero ma non con chi si trova accanto. Nessuno che racconti qualcosa a qualcuno. Nemmeno una parola rivolta a chi è seduto accanto, di fronte. Di tanto in tanto soltanto un distratto chiedere scusa per il braccio che scivola invadendo lo spazio dell’altro, per un calcio inavvertitamente tirato negli stinchi. Niente di più. Nessuna conversazione. Un uomo legge Italo, un libro in cui Ernesto Ferrero racconta di Calvino, forse anche lui separato da tutti, da tutto. E’ come se ognuno avesse accartocciato la parola e l’avesse buttata nel cestino di metallo.