di Francesco D’Andria
Con le sue mura di difesa, lunghe quattro chilometri, larghe più di sette metri e spesse tre metri, a recingere una vasta area di circa 107 ettari, questa città dei Messapi caratterizzava in modo indelebile il paesaggio del Salento sud-orientale, nella pianura interna rispetto ad Otranto e alla costa adriatica. Per costruire queste immani opere di fortificazione, nel IV sec.a. C., erano state impiegati circa ottantaquattro mila metri cubi di blocchi squadrati, dalle locali cave di calcarenite: un’opera di grande impegno che presuppone un’organizzazione sociale complessa, un’ampia base demografica e la disponibilità di manodopera specializzata e di grandi risorse finanziarie. Confrontabile addirittura con strutture come il Colosseo se pensiamo che, per la recinzione esterna del massimo edificio romano, erano serviti centomila metri cubi di travertino, che oggi potrebbero trasportare non meno di diecimila camion. Non per nulla il nome antico del centro messapico è andato perduto, ma in età moderna fu chiamata Muro proprio per le strutture che ancora emergevano dalla terra.
La città tuttavia non era soltanto un recinto, se pure enorme, a chiudere uno spazio vuoto. Nei secoli compresi tra l’VIII e il III a.C., quando infine il Salento fu conquistato dai romani, la vasta piana si andò organizzando in quartieri collegati da larghe strade, con zone artigianali ed aree predisposte per attività cerimoniali e di culto. Come d’uso nel mondo messapico le necropoli erano situate all’interno delle mura; Polibio riferisce che anche a Taranto l’oracolo di Delfi aveva suggerito, per vivere meglio e con maggiore vantaggio, di abitare “con i più”(ossia con i morti); e per questo i tarentini avevano incluso le aree di sepoltura all’interno delle mura.