di Antonio Errico
Cento anni fa, il 15 di ottobre del 1923, nasceva Italo Calvino. Come accade per ogni autore e per ogni tipo di letteratura, qualcuno pensa la stessa cosa di un altro oppure ognuno pensa una cosa diversa. Della letteratura di Italo Calvino, ognuno pensa ovviamente quello che vuole, in relazione alla propria esperienza di esistenza e di letture, ma nessuno può negare che abbia introdotto un diverso modo di pensare la forma e la sostanza letteraria, addirittura di pensare la sua stessa natura.
Come tanti, molti, della mia generazione, ho dormito con i libri di Calvino sotto il cuscino. Ho letto “Il cavaliere inesistente” in una notte sola durante il militare, nei turni di guardia a Fondone. Ma quando l’altro giorno mi è stato chiesto quale dei suoi libri per me è stato essenziale, qual è stato quello che ha conformato il mio modo di guardare le cose, di entrare nelle storie, di intendere la scrittura, mi sono sentito a disagio, non sapevo cosa rispondere, non ho risposto.
Però quella domanda mi girava e rigirava nella testa, sentivo che dovevo rispondere almeno a me stesso, e una risposta in qualche modo l’ho trovata. I libri di Calvino che mi hanno lasciato diverso da come mi hanno trovato, sono due.
Il primo è “Il sentiero dei nidi di ragno”. Anzi, la prefazione di Calvino all’edizione del 1964. Quella in cui dice che non avrebbe voluto fare la prefazione al suo libro ma a “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, perché è un libro di paesaggi, di figure rapide e tutte vive, di parole precise e vere; un libro assurdo, misterioso, “in cui tutto ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inserire altro ancora e non si arriva al vero perché”.