I resti di Babele 2. Raffaele La Capria, l’ultimo narratore capace di scrivere il tempo

di Antonio Errico

Quando si prova una bella, affettuosa e beneagurante invidia, bisogna confessarla. Allora io confesso che per Raffaele La Capria provo una bella, affettusa e beneaugurante invidia. Il tre di ottobre avrà novantacinque anni, e pensa acutamente ancora, e scrive ora come scriveva allora: ai tempi di “Ferito a morte”, che cominciavano gli anni Sessanta, o al tempo di “Letteratura e salti mortali”, che cominciava l’ultimo decennio dei Novanta, o al tempo le “La mosca nella bottiglia”, che gli anni Novanta avevano passato la metà. Come gli si augura che faccia, fra tre mesi. Con affettuosa beneaugurante invidia.

La Capria è uno degli ultimi – pochi – maestri della narrativa italiana del Novecento e di questi anni di secolo nuovo. E’ uno di quelli che credono senza alcun dubbio che per mettersi a raccontare una storia bisogna averla dentro. Non la si deve cercare. Bisogna averla dentro. E’ uno di quelli che pensano che la letteratura è parte della vita, non artificio.

Ho letto tutti i libri di La Capria. Almeno credo. Ma ce n’è uno al quale sono affezionato un po’ di più, senza neppure sapere per quale motivo. Potrebbe sembrare uno di quei lbri scritti così, per spassatempo, un libro da strenna. Invece è un libro di profondità. D’altra parte un libro sul tempo non può essere altro che di profondità. Lo ha pubblicato Manni quasi dieci anni fa e si intitola “ I mesi dell’anno”, con le illustrazioni di Enrico Job.

Raffaele La Capria entra nel tempo con la sensibilità e la leggerezza che servono per sentirlo in tutta la sua pienezza, qualche volta per comprenderlo nella sua complessità, per raccontarlo con quella ingenuità che solo un bambino o un sapiente possono avere.

Per scrivere il tempo bisogna avere per esso un disincanto ed un’adorazione, in uguale misura. Bisogna saperlo trasformare in immagini, in metafore che riescono a proiettare lo sguardo al di là dell’orizzonte limitato dell’esistere, in storie che sovrappongono la realtà e la finzione, che confondono le verità della memoria con l’invenzione delle parole.

Per scrivere il tempo forse non bisogna riflettere ma solo osservarlo nei suoi passaggi, nelle sue occasioni, in quelle condizioni che lo fanno essere e sentire negli occhi, sulla pelle, che suscitano stupori o paure, pesantezze o sollievi, pazienze o impazienze.

Così fa La Capria. Racconta le sue intime stagioni, la sua piccola mitologia quotidiana, i riflessi della memoria e gli accadimenti del giorno che vive. Il suo è un sentimento del tempo che trova espressione nella leggerezza delle parole che dicono di terrazzi fioriti e di nuvole quando il sole tramonta, di gennaio e dicembre, di un cominciamento e una fine, dell’esperienza della neve di marzo qui a Sud, della malinconia che attraversa ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora, ogni istante, delle foglie e i fiori che tornano, delle gemme che spuntano, delle linfe che scorrono, della luce dell’inverno e dell’estate, delle creature che vengono e vanno tra noi e l’eterno, dello stupore di ritrovarci in un altro giorno, inquieti e sereni.

Buoni anni a venire, allora, Maestro. Con affettuosa invidia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, sabato 29 luglio 2017]

[Gli articoli pubblicati in questa rubrica sono una selezione di quella che dal 2010 Antonio Errico tiene, con lo stesso titolo, su “Nuovo Quotidiano di Puglia”.]

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