di Barbara Spagnolo
Northanger Abbey, pubblicato postumo nel 1818, è forse il più inconsueto dei romanzi di Jane Austen e il meno conosciuto. Vissuta a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, Jane Austen appartiene pienamente al Settecento e, infatti, nei suoi romanzi si percepisce come il moralismo sia uno dei punti essenziali della sua narrativa e, al contrario, manca quella tendenza all’isolamento del personaggio che si scontra con la società, tipica dell’Ottocento. Sono molte le ragazze che in quel periodo scrivono per evadere dalla noia di giornate dedicate ad attività prettamente femminili, come il ricamo, in attesa del matrimonio che avrebbe dato alla loro vita una svolta: da sognatrici sarebbero diventate donne con il compito di gestire il focolare domestico. Ma il caso di Jane Austen è diverso: le sue pagine non hanno nulla a che vedere con le classiche storie sentimentali e le fantasticherie di una qualunque ragazza borghese. Dalle narrazioni, trattate con ironia, emerge la sua attenzione nei confronti degli eccessi di una società fondata sull’ipocrisia e sull’accettazione di regole ferree.
Ciò che la scrittrice vuole rivelare di sé lo rivela attraverso i suoi romanzi che, in qualche modo, tentano di mettere ordine nel mondo che la circonda. Scritto tra il 1798 e il 1799, Northanger Abbey è l’anello di congiunzione tra le sue opere giovanili ed è l’unico romanzo in cui un amore, nato a prima vista, vada a buon fine; ciò che caratterizza il romanzo è proprio la chiara intenzione dell’autrice: riuscire a scrivere una parodia, ben riuscita aggiungerei, del romanzo gotico in generale e di I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe in particolare, testo che era tanto in voga all’epoca; l’autrice, infatti, mette in rilievo i tratti tipici del genere in maniera quasi esasperata e rende evidente il contrasto tra la falsità dell’invenzione e l’autenticità drammatica del quotidiano.