di S. N. Sergeev Zenskij
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Un uomo picchia un altro uomo, corpo a corpo, non del tutto sicuro. Persino è capace d’apprensione: se costui, che sta picchiando, dovesse giocargli qualche brutto tiro?
Picchia con la parte maggiore del suo essere, mentre la sua parte minore osserva e medita.
La parte minore sussurra: «Basta!» La maggiore continua a picchiare… La minore dice, in modo distinto: «Fermati! Smettila!» – la maggiore picchia un po’ meno forte, con più dominio di se stessa e con meno accanimento. La minore, finalmente, ordina: «Smettila! Giù le mani, a chi sto parlando?!» – e si mette all’istante al posto della parte maggiore e l’uomo che picchiava, lasciando stare colui che stava picchiando, se ne va via con l’atteggiamento esteriore di chi ha ragione e con aria scanzonata, ma portando talvolta nell’animo la vergogna.
Tutta un’altra cosa è la folla. Alla folla sono sconosciuti i sentimentalismi. La folla, quando urla, non urla, giudica; la folla non medita, non pondera, non osserva, emette il verdetto; la folla non picchia, esegue la condanna a morte e colui che viene picchiato dalla folla, è sicuro di non alzarsi più.
Anche Fëdor n’era sicuro, lo sapeva bene. Fëdor Titkov, nativo di un villaggio cosacco, ossia, in russo, la stanitsa Urjupinskaja; uomo in sé di poca prestanza, di statura piccola, ma con il corpo nerboruto, sodo e la faccia paonazza. Era ancora piuttosto giovane, aveva occhi piccoli, che non stavano nelle orbite, ma collocati direttamente sopra le guance tonde.