di Antonio Errico
Così stanno le cose. A volte si afferma quello che in realtà è un celato interrogativo. A volte non è nemmeno tanto male che le cose stiano così: incerte, indefinite, in attesa. Che non si sappia veramente come stanno, non è nemmeno tanto male.
Così stanno le cose è il titolo di una raccolta di scritti di Gianluca Virgilio (Edit Santoro). Uno stile tra saggio e racconto, con un andamento che è come un parlare una sera in piazza con gli amici, e forse (o soprattutto) un parlare tra sé e sé, così, per chiedersi, per dirsi come stanno le cose, durante una passeggiata in campagna o a santa Maria al Bagno. Come stanno le cose nel rapporto tra padri e figli, per esempio. Come stanno le cose (certe cose) a scuola. Allora, leggendo questi pezzi di Virgilio si impara, fra l’altro, che un insegnante mette all’incirca ottomila firme l’anno che moltiplicate per quarant’anni di servizio diventano trecentoventimila firme. “Se non ho fatto male i conti”, dice Virgilio. (Io comunque non ho controllato.) Ma, con una firma in più, con una firma in meno, le cose stanno così.
Virgilio perlustra il sociale; si sofferma su un particolare, lo analizza spesso con ironia. L’ironia è un metodo per comprendere le cose e il modo in cui stanno, talvolta anche per non curarsene troppo, per distinguere quelle che hanno molta importanza da quelle che ne hanno poca, da quelle che non ne hanno affatto. Una volta, a sedici anni, Gianluca Virgilio si ritrova seduto da solo su una panchina della sua città. Deserta. Com’è deserta una città quando la Nazionale di calcio gioca una partita. Un giovane storpio e senza amici si avvicina. Gli regala un’armonica a bocca. Lui gli offre una sigaretta, poi un’altra e un’altra. Poi, a un certo punto, la città viene invasa da urla, clacson, schiamazzi, e Gianluca sente un fremito che lo spinge nella calca. Però resiste. Non si unisce alla baraonda. Se fece bene o fece male, ancora non sa dirlo. Però fu quella volta che capì come stanno le cose: almeno per se stesso. Perché come stanno le cose, almeno per se stessi, o lo si capisce a quell’età di passaggio, di maturazione, di formazione, oppure non lo si capisce mai più.
Quando non si capisce come stanno le cose, può accadere che si faccia confusione. Per esempio fra il superfluo e l’essenziale. Oppure fra l’esistenza profonda e quella superficiale. Quel giovane storpio e senza amici, che se ne andava in giro per il paese suonando l’armonica a bocca, era l’esistenza autentica. L’euforia straripante per una vittoria della Nazionale, l’esistenza superficiale.
Ogni cosa, ogni gesto, pensiero, sentimento, comportamento, può essere profondo o superficiale. Per tutto ci vuole misura, dice Virgilio. Anche per la scrittura ci vuole misura, se la consideriamo come condizione che ci appartiene. Mai scrivere una parola in più del necessario, dice; mai scrivere per un fine diverso che non sia la stessa scrittura, senza una motivazione che abbia le radici in profondità. Una scrittura senza profondità, pretestuosa, è una scrittura senza saggezza, stolta, quindi.
Molto spesso, forse le cose stanno nella maniera in cui noi facciamo in modo che stiano, almeno per quanto si riesca a determinarle. E’ questa la considerazione che scorre per tutto il libro di Gianluca Virgilio. Non solo quello che accade nella dimensione del sociale, ma per molti aspetti anche quello che accade nella sfera personale, dipende dall’orientamento che noi diamo al nostro pensare, al nostro fare, dal modo in cui configuriamo la nostra personalità, dai punti di riferimento che assumiamo per la nostra esistenza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 2 ottobre 2014]