di Guglielmo Forges Davanzati
È da salutare con favore la decisione delle opposizioni – esclusa Italia Viva – di proporre l’introduzione del salario minimo in Italia. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non avere una normativa sul salario minimo (esiste in 21 Paesi su 27), anche se ha un’elevata copertura della contrattazione collettiva (CCNL). Va riconosciuto, tuttavia, che sarebbe prioritariamente auspicabile una politica industriale finalizzata a irrobustire la nostra struttura produttiva, garantendo ai lavoratori incrementi salariali per il tramite di guadagni di produttività derivanti da maggiori dimensioni aziendali con tecnologie di avanguardia. Innanzitutto, va detto che, nel nostro Paese, esiste una rilevante questione salariale, che fa riferimento a questa evidenza. L’Italia è l’unico Paese dell’Eurozona ad aver sperimentato una riduzione dei salari reali dagli inizi degli anni Novanta, nell’ordine del 2.9%. Il salario medio in Italia è inferiore a quello medio dell’Eurozona. Da uno studio della Fondazione Di Vittorio, condotto da Nicolò Giangrande, emerge non solo che il salario medio italiano è notevolmente inferiore a quello tedesco, ma anche che se si confronta il salario lordo annuale medio del 2021 con quello del 2019 risulta come il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si è sempre ampliato: la differenza con il salario francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da -13,9 mila a -15,0 mila euro. A tenere bassi i salari italiani, nel confronto con i principali Paesi europei, è soprattutto l’altissima incidenza, nel nostro Paese, di lavori a bassa qualificazione e anche la quota rilevante di dipendenti a termine (il 16.6% contro l’11% della Germania).